La fede si fa carne

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In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!».

E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
(dal Vangelo di Matteo 3,1-12)

“Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” recita un proverbio famoso. Giovanni il battista potrebbe forse modificare il proverbio dicendo “…c’è di mezzo il fiume Giordano”.
Giovanni Battista ci viene offerto come forte invito a trasformare in vita quello che ricordiamo a Natale, cioè Dio che diventa uomo in maniera concreta e non “a parole”.
La conversione di cui parla il Battista non è solo una cosa mentale, un credere solo con la testa. Come dice lui stesso, con un tono forte e senza mezzi termini, “fate un frutto degno della conversione”.
Venire al Giordano per fare un rito di purificazione senza poi trasformalo in scelte concrete, rischia di essere addirittura controproducente e di allontanare da Dio.
E il primo che fa questo, cioè a trasformare in vita la parola di Dio, è Dio stesso. A Natale sentiremo nel Vangelo “E il Verbo si fede carne” (Vangelo di Giovanni capitolo 1), indicando che Dio parla all’uomo con una storia concreta, quella di Gesù di Nazareth.
Mi ha colpito in questi giorni il ricordo di Charles de Foucauld a 100 anni dalla morte, avvenuta all’età di 58 anni il 1 dicembre del 1916, e dichiarato beato da Benedetto XVI nel 2005.
Charles de Foucauld è stato un uomo dalla profonda inquietudine interiore che lo ha portato negli anni giovanili ad allontanarsi dalla fede e a ricercare altre strade di felicità, nella vita senza regole, nei viaggi, nella vita militare. Come tanti del suo tempo, in una Francia di fine ottocento sempre più atea e anticlericale, sentiva ogni discorso su Dio inutile e lontano da se. Nel suo peregrinare in Africa, in luoghi lontani e a quel tempo inaccessibili, a contatto con le popolazioni di fede mussulmana, si risveglia in lui un desiderio di conoscenza profonda di Dio. Ed è proprio andando a Nazareth, che si innamora di Gesù. Riscopre la fede in un modo così vero e profondo che nel 1900 viene ordinato prete. E’ davvero difficile sintetizzare la sua spiritualità, che ancora oggi ispira molti cristiani che vivono secondo la sua regola dei “piccoli fratelli”, ma questa aveva una caratteristica fondamentale che era quella di un amore per l’uomo, ogni uomo, come faceva Gesù di Nazareth. Charles de Foucauld, decide di vivere la sua testimonianza di fede in mezzo ai Tuareg, popolazione di fede islamica che vive nel deserto a sud dell’Algeria, ed è là che troverà la morte nel pieno della Prima Guerra Mondiale. Ogni uomo può essere amico, indipendentemente dalla razza, dalla cultura e dalla religione. Questo è l’insegnamento di Dio che ci viene proprio dall’incarnazione del Figlio.
Gesù si è fatto uomo come tutti, e non ha avuto paura di “sporcarsi” le mani per stare accanto ad ogni essere umano a cominciare dal più lontano e dimenticato.
Per questo “fare frutti degni di conversione”, significa credere che la fede o diventa carne o non serve a nulla. O il nostro dirci cristiani ci fa vivere come Gesù altrimenti è inutile se non dannoso per il mondo.
Per questo Giovanni è molto duro con i rappresentanti religiosi del suo popolo, che si presentano al fiume Giordano pensando che basti fare un rito per dirsi a posto con Dio. Il Battista non ha paura di metterli difronte alla loro ipocrisia.
La fede che celebriamo ogni giorno e particolarmente a Natale è credere nella vita, nell’uomo, nella possibilità di incontrare Dio nella vita di ogni essere umano.
Avere fede non è quindi “tirarsi fuori” dal mondo, ma al contrario “immergerci” (che è anche il significato della parola “battesimo”) concretamente nella vita del prossimo senza giudizio ma con amore, così come ha fatto Dio in Gesù di Nazareth.

In uno dei suo scritti Charles de Foucauld sulla fede scrive così:

“Avere veramente la fede, la fede che ispira tutte le azioni.
Quella fede nel soprannaturale
che dappertutto ci fa vedere soltanto lui,
che toglie al mondo la maschera
e mostra Dio in tutte le cose,
che fa scomparire ogni impossibilità,
che rende prive di senso parole
come inquietudine, pericolo, timore,
che fa camminare nella vita
come un bambino attaccato alla mano della mamma”

Gesù è risorto non solo a parole

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La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
(dal Vangelo di Giovanni 20,19-31)

Un amico missionario mi ha ricordato che proprio in questi giorni ricorre il trentesimo anniversario della morte nelle Filippine di un giovane missionario del PIME (pontificio istituto missione estere), Padre Tullio Favali, originario di Mantova. Padre Favale è una delle tante vittime della violenza che in varie forme, luoghi e tempi si accanisce su chi testimonia con parole e gesti la propria fede in Gesù.
Mi ha colpito quello che ho letto di padre Tullio. Questo prete, allora poco più giovane di me adesso, aveva una grande ansia missionaria chiusa dentro, e solo dopo diversi anni di ricerca dentro e fuori dagli ambienti ecclesiali, finalmente arriva alla consacrazione come prete missionario nel mondo, specialmente verso i più poveri. E così nel 1984, prete da pochi anni, viene assegnato alla missione di Tulunan nelle Filippine, in un momento storico difficilissimo per quella regione, scossa dalle tensioni tra il regime dittatoriale alla fine e i ribelli comunisti. Padre Tullio viene ammazzato proprio mentre soccorre un catechista ferito, affrontando (come narrano le cronache nel martirio) a braccia disarmate e aperte il suo uccisore.

padre Tullio Favali, missionario (1946-1985)

In una delle ultime lettere all’amico padre Gilberto Orioli, il 27 marzo 1985, padre Tullio scrive: «… non mi resta che immergermi in questo mondo e camminare a fianco di questa gente, nella comunione fraterna e condivisione. Il lavoro è tanto e il compito affidatoci è grande: però non siamo soli, un Altro ci sorregge e viene incontro alla nostra debolezza. Coraggio, dunque. Diciamocelo reciprocamente»
Ho subito collegato queste parole a quelle che Gesù risorto dice agli impauriti discepoli barricati nel Cenacolo, dopo che il Maestro è stato preso, condannato e ucciso sulla croce. L’annuncio della resurrezione era arrivato ai suoi amici, ma sembra non esser stato efficace a sconfiggere le paure e a farli uscire per diffondere questo messaggio. Paradossalmente è proprio Tommaso, non presente nel rifugio, a dimostrare un coraggio ad uscire che agli altri mancava.
Gesù appare ai discepoli, sapendo che non si muoveranno solo con delle parole, ma solo facendo davvero esperienza viva di resurrezione. Appare e dona la pace.
Quando dice “pace a voi”, non è un banale saluto di circostanza e nemmeno una esortazione morale (dovete essere in pace…), ma è un annuncio che la pace è davvero con loro, anche se in mezzo a difficoltà e paure. Ed è questa pace-felicità profonda che li può muovere ad uscire e diventare loro stessi segno di pace per gli altri e per il mondo intero.
Il primo compito degli apostoli non è raccontare una storia del passato, ma essere segno della misericordia che è dentro quella storia, che è sempre attuale.
Sono chiamati a portare pace e perdono, ad accogliere e rassicurare il prossimo, e con tutto questo danno concretezza alle parole “Gesù è risorto”, che altrimenti diventerebbero solo parole al vento che non convincono nessuno.
Infatti i primi apostoli sono i primi a sperimentare il fallimento di un annuncio fatto solo di parole. Tommaso non crede a quello che gli dicono e dovrà fare anche lui esperienza di Gesù risorto, vedendo quel corpo segnato dalla croce e che ora è vivente.
E’ questa la via della predicazione che la Chiesa da allora ha iniziato e non ha mai concluso. E’ la predicazione fatta di atteggiamenti e gesti concreti di resurrezione. Se Tommaso è stato convinto vedendo i segni reali della passione nel corpo risorto di Gesù, a tutti gli altri venuti dopo (tra i quali anche noi) i segni sono quelli dell’amore fraterno, della vita donata per il vangelo, del servizio ai poveri, dell’impegno a costruire un mondo di pace.
Questi sono i segni con i quali si comunica oggi che Gesù è risorto, e sono segni davvero efficaci che possono convertire il prossimo.
Padre Tullio Favali, immerso in segni di morte di un popolo povero e segnato dalla paura, ha creduto che la resurrezione si annuncia con la vita e dando segni concreti di pace. Ogni missionario (non solo i preti e religiosi…ma ogni cristiano) annuncia che “Gesù è risorto” diventando lui stesso segno di amore, come i segni della passione che hanno convinto Tommaso e gli altri. Questa è la testimonianza: in Cristo la morte per amore genera vita, e l’odio non uccide mai l’amore vero.

Giovanni don

Una famiglia “non normale”

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Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.
(dal Vangelo di Luca 2,22-40)

 

Non esiste “la famiglia”. Non esiste la famiglia come concetto astratto partorito da teorie e ragionamenti che non hanno un contatto con l’esperienza concreta e “di carne”.
Esistono “le famiglie”, quelle concrete e “di carne”, tante e diverse tra loro. E tra queste c’è anche la famiglia di Gesù.
Cercare un modello unico di “vera e santa” famiglia, significa tagliare fuori le “vere e concrete” famiglie che vivono la loro esperienza in modo unico e diverso dalle altre.
Quando vedo un’immagine di famiglia rappresentata da una pubblicità, oppure una famiglia raffigurata sulla copertina di una rivista cattolica, oppure una famiglia di personaggi famosi in qualche servizio televisivo, mi domando sempre se sia possibile identificarsi con esse e se, pensando alla propria esperienza di famiglia, gli elementi di somiglianza siano maggiori o minori rispetto a quelli di differenza.
In alcuni incontri in preparazione alla festa del Natale ho voluto confrontarmi sull’esperienza di famiglia con i ragazzi della parrocchia e con i loro genitori. Ho fatto vedere loro un video con una lunga serie di immagini che rimandavano ad altrettante esperienze diverse di famiglia: la famiglia fatta di tanti figli e quella con pochi figli o figli unici; la famiglia con un solo genitore perché l’altro per diversi motivi (morte o separazione) non c’è’ più: la famiglia allargata a parenti e nonni; la famiglia che vive la sofferenza di una malattia temporanea e quella che ha al suo interno una o più persone disabili; la famiglia famosa delle riviste e quella straniera e sconosciuta; la famiglia perfetta della pubblicità e quella che viene raccontata in film o telefilm; c’era anche più di una immagine che rimandava alla santa famiglia di Nazareth…
Ho chiesto quale delle famiglie fosse più vicina alla loro esperienza e quale poteva esser un modello di famiglia oggi. Nessuno si è riconosciuto al 100% in una sola famiglia delle famiglie rappresentate nel video. Tutti vedevano un qualcosa di simile ma anche molte differenze. E, stranamente, nessuno si è riconosciuto nella Sacra Famiglia. Anzi sembrava che la famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria fosse più da guardare da lontano piuttosto che conoscerla e cercarne la somiglianza: quella è una famiglia da mettere sull’altare ma non da confrontarsi realmente con la vita.
Gli elementi comuni sottolineati erano invece pochi, ma erano fondamentali in modo da poter avere una vera esperienza di famiglia nella quale riconoscersi tutti: la famiglia nasce dalla scelta d’amore di due persone che decidono di costruire una storia attorno a questo sentimento, e credono che questo amore davvero generi vita. Per “generare vita” intendo non solo la vita fisica di un figlio ma anche la vita interiore si tutti i componenti della famiglia stessa. Dove c’è amore allora è possibile che nasca e si sviluppi la vita. Dove questo amore non c’è e viene quindi lasciato il posto al conflitto, allora la famiglia muore e diventa “mortale” per chi ne fa parte.

      La famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria è una vera famiglia non perché risponde a modelli fissi e precostituiti. Anzi questi modelli li scardina un bel po’. Il vangelo infatti, che della Sacra Famiglia ci dà pochi ma essenziali tratti, non evita di raccontare tutte le disavventure di questa famiglia che fin dalla sua nascita è segnata dall’originalità. Ci viene infatti raccontato che Giuseppe è tentato di ripudiare la sua sposa perché il figlio che lei aspetta non è suo. La famiglia poi non riesce a trovare un posto tranquillo e normale dove metter al mondo il bambino. Infine è una famiglia che è destinata alla fuga, braccata dalla legge del suo tempo (Erode).

 

      Ma in tutta questa vicenda così “storta” e problematica, la Sacra Famiglia è unita dall’amore e dalla fiducia in Dio. Nella famiglia di Nazareth nasce la vita, non perché tutto è “secondo la norma”, ma perché vi abita Dio e prospera l’armonia di chi la costruisce (Giuseppe e Maria) e di chi l’ha voluta da sempre (lo Spirito di Dio)

 

      Le nostre famiglie non ricerchino troppo di esser “nella norma” e “come tutte le altre”. Le nostre famiglie ricerchino innanzitutto di volersi bene davvero, anche oltre le difficoltà e le apparenze. E in questa ricerca dell’amore che genera vita, per me è fondamentale lasciare che Dio entri dentro quotidianamente.

 

      Nella famiglia di Nazareth non abbiamo quindi un modello, ma una speranza, un incoraggiamento, una “buona notizia” (cioè un “vangelo”) che davvero tutti possiamo vivere e gioire dell’esperienza della famiglia, in qualsiasi situazione siamo e anche oltre i giudizi.

 

      Giovanni Don

 

 

 

In cammino coi Santi

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In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
(dal Vangelo di Matteo 5,1-12)

Clotilde e Gaetan sono due giovani che qualche giorno fa si sono fermati a cercare un riparo per la notte in parrocchia. Si sono sposati a fine agosto nel loro paese nella Francia centrale, e il giorno dopo il loro matrimonio si sono messi in viaggio a piedi verso Gerusalemme, trainando un carretto arancione con le loro poche cose. Hanno deciso così di iniziare il loro cammino di vita matrimoniale, con questo lungo pellegrinaggio che li poterà ad affrontare non poche difficoltà molto concrete per arrivare alla meta.
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Questi due giovani sono stati con noi qualche ora, giusto il tempo per pregare insieme, mangiare qualcosa e passare la notte, poi al mattino sono ripartiti, lasciandoci come regalo in parrocchia la loro testimonianza di piccola comunità di fede e amore “in cammino”. Il loro sorriso e la totale disponibilità e fiducia nei nostri confronti, hanno stimolato anche il mio sorriso e la mia disponibilità e fiducia. Vederli ripartire lentamente con il loro carrettino arancione mi ha fatto ritrovare un pizzico di fiducia nella vita e anche nelle mie possibilità di fare anch’io i miei passi di vita, superando la tentazione di bloccarmi perché penso di non farcela.
I Santi che la Chiesa oggi ricorda tutti insieme sono in fondo come Clotilde e Gaetan. Sono li per noi per ricordarci che la strada della vita di fede anche se dura non è impossibile da percorrere. Ognuno di loro ha fatto il proprio percorso in un luogo e tempo preciso della storia umana. Hanno avuto anche loro momenti di salita e di affaticamento, ma alla fine sono arrivati alla meta, che è la Gerusalemme del cielo. Ricordare un santo o una santa, andando a conoscerne la storia e quello che hanno detto e fatto, ci aiuta a fare il nostro cammino che è solamente in un epoca e luogo diversi dal loro, ma non per questo impossibile oggi per noi.
Le Beatitudini sono quella stupenda pagina del Vangelo che ci aiuta a contemplare nella nostra vita l’azione di Dio, che di fa suoi figli, ci consola, ci sazia della sua Parola, ci perdona… La beatitudine viene come dono di Dio possibile per tutti, basta mettersi in cammino e non cedere alla tentazione di pensare che solo pochi possono fare la strada di Dio.
Clotilde e Gaetan fanno questo cammino insieme, sperimentando cosa vuol dire realmente aiutarsi, sostenersi, portare i pesi l’uno dell’altro, allungare o rallentare il passo per non perdersi, e alla fine gioire insieme per la meta raggiunta. Questa è la Chiesa che Gesù vuole, fatta di Santi che sono in cielo e che hanno fatto già il loro pezzo di cammino e fatta di noi qui che siamo per strada, non da soli, ma insieme gli uni accanto agli altri

Giovanni don

Maria la donna che corre con l’umanità

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In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Allora Maria disse:
«L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua
(dal Vangelo di Luca 1,39-56)

Maria corre da Elisabetta per verificare il segno che l’angelo le ha dato la notte dell’annunciazione. Maria probabilmente è spinta da sentimenti contrastanti, che il racconto di Luca ci fa intravedere e che noi, lettori di oggi, possiamo immaginare cercando di immedesimarci in lei.
Corre con un sentimento di smarrimento, perché quello che le è stato annunciato è davvero più grande di lei. Ha accettato di diventare madre terrena del Figlio di Dio che entra nel mondo, ma non senza dubbi, paure e fatiche interiori. Maria dunque si alza e da Nazareth corre in questa misteriosa città di Giuda.il fatto che questa città sia così indeterminata sembra rappresentare le molteplici mete che tutti gli uomini e donne del mondo e della storia cercano di raggiungere, carichi anch’essi dello smarrimento e paura di Maria.
Maria ha sicuramente paura, perché la paura non è un peccato ed è un sentimento umanissimo. La paura è anche quell’istinto che ci preserva da tanti pericoli e ci fa essere cauti e attenti nell’affrontare l’ignoto. Maria ha paura di non trovare nulla di tutto quello che le è stato dato come prova di Dio. Ma insieme alla paura ha anche sentimenti di speranza e coraggio, senza i quali non sarebbe uscita dalla porta della sua sicura casa della Galilea.
In questi giorni abbiamo visto attraverso i mezzi di comunicazione le migliaia di uomini, donne e bambini cristiani e anche di altre minoranze religiose, che dalle regioni più interne dell’Iraq corrono via spaventati dalla terribile minaccia di morte degli estremisti islamici. E sappiamo che questa corsa per moltissimi di loro è stata inutile, perché la morte più terribile li ha raggiunti. Abbiamo visto anche la corsa degli abitanti di Gaza stretti nella morsa della guerra tra Hamas e Israele, e che non sanno davvero dove fuggire per evitare morte e distruzione. E non finisce la corsa di migliaia di profughi e stranieri che si imbarcano su fragili imbarcazioni per fuggire dalla fame e dalle guerre cercando rifugio sulle nostre coste europee.
Ma anche più distante in Africa e in Asia, altre migliaia di persone non fermano la loro corsa di sopravvivenza, tra guerre, povertà, epidemie.
La nostra umanità è segnata da questa corsa piena di paura e smarrimento, come Maria, ma anche con voglia di vivere e la speranza di un futuro migliore.
La corsa di Maria termina nell’incontro gioioso con Elisabetta, che le conferma con un semplice saluto, che tutte le sue paure, incertezze e dubbi possono scomparire. “Benedetta tu fra le donne”, si sente dire alle orecchie e al cuore.
E dalla certezza interiore che davvero Dio l’ha riempita della sua grazia, Maria pronuncia un inno che va oltre la sua situazione personale e attraversa i secoli.
Il canto del Magnificat vede un mondo nuovo, libero da ingiustizie, povertà, e odio e pieno dell’amore di Dio e della felicità e solidarietà tra i popoli.
Il Magnificat di Maria è pronunciato per la nostra umanità di oggi, specialmente quella segnata dalle violenze e sofferenze più grandi.
Noi cristiani che ascoltiamo e preghiamo con queste parole di Maria, ci impegniamo a far sì che non siano parole vane e promesse inutili scritte su antichi libri.
Noi cristiani crediamo che davvero il Signore guarda l’umiltà dei più piccoli e che vuole rivoluzionare il mondo, dando da mangiare agli affamati, innalzando gli umili, soccorrendo ogni uomo e donna….
Noi cristiani non possiamo non impegnarci a cambiare il mondo così come Maria, ispirata da Dio, ha pronunciato quella sera nella città di Giuda insieme con Elisabetta.

Giovanni don

Abbiamo fame di Dio?

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In quel tempo, avendo udito [della morte di Giovanni Battista], Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte.
Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.
(dal Vangelo di Matteo 14,13-21)

Tra qualche giorno con un gruppo di giovani, partirò per Assisi. Staremo nella città di San Francesco quasi una settimana, e avremo così occasione di confrontarci con quella straordinaria storia umana e di fede che ancora oggi, a 800 anni dalla morte del Santo, ispira milioni di persone credenti e non credenti.
Una delle prime cose che faremo appena arrivati non sarà di gettarci subito nella visita dei luoghi storici della vita di Francesco, come fossimo lì solo per turismo artistico e culturale. Il programma che abbiamo preparato con gli animatori prevede di fermarci ad ascoltare la nostra vita come è adesso, nel momento in cui iniziamo questa esperienza. La domanda che ci faremo appena sistemati nella casa, dove siamo ospiti, sarà: “perché siamo qui? Di cosa ha bisogno la mia vita umana e spirituale adesso? Quali sono i vuoti da riempire nel cuore?”. In sintesi la domanda può essere: “di cosa ho fame adesso?”
Tutti gli evangelisti, e quindi anche Matteo, raccontano questo fatto straordinario della moltiplicazione dei pani e pesci che Gesù ha operato con i suoi discepoli e le folle. Se il ricordo è così forte, questo significa che davvero è un evento centrale e dal significato così essenziale che non deve essere dimenticato dalle generazioni successive di discepoli.
Gesù opera un prodigio in risposta ad una fame concreta e reale nelle folle che lo seguono, uomini e donne che sono però affamate anche di Dio tanto quanto di pane da mangiare.
Gesù è venuto a dare da mangiare, a dare risposta all’uomo che rischia di morire di fame non solo di cibo per lo stomaco, ma anche di cibo per il cuore, di amore, di pace…
La prima risposta a questo problema del pane da mangiare viene dagli apostoli che vorrebbero che ognuno si arrangi, andando a comprare il cibo.
Ma Gesù cambia totalmente la prospettiva, e passa dal “comprare” al “condividere”: “voi stessi DATE loro da mangiare…”
La condivisione del poco risolve il problema della fame, e gli apostoli diventano modello di una comunità cristiana che non si blocca e non si chiude difronte alla fame del mondo, ma si mette al servizio, convinta che è possibile sfamare l’umanità, anche se i mezzi sembrano insufficienti. Gesù vede la fame del popolo e insegna agli apostoli di prendersi carico di questo senza paura e con profonda speranza.
Quando partecipiamo alla messa domenicale è davvero importante prima di tutto domandarsi “ho fame di Dio? Di cosa la mia vita ha bisogno? Con quali vuoti interiori sono qui oggi?” Riconoscere che abbiamo fame di Dio, di amore, di fraternità, di pace… ci aiuta a vivere quella celebrazione con maggior frutto e partecipazione vera. Ed è importante riconoscere che anche il fratello accanto a me è venuto lì con la sua fame di qualcosa, con i suoi vuoti, dubbi e domande. Gesù è lì per sfamare me e lui, ed insegna a me e a lui di prenderci carico insieme della fame dell’umanità, una fame di beni materiali ma ancor più di senso della vita e di Dio. E se ci sembra di avere poco tra le mani, perché ci sembra di avere pochi mezzi materiali, poca fede, poche capacità, non dobbiamo cedere alla paura e non dobbiamo scoraggiarsi. Il miracolo della moltiplicazione e della condivisione può ripetersi anche oggi.
Non so ancora cosa succederà in questi giorni ad Assisi. Conosco bene il programma che ho preparato e quanto spenderemo per vitto, alloggio e spostamenti. Ma non ho idea di quello che verrà donato a me e ai giovani in questa esperienza. Ma sono fiducioso perché ad Assisi andiamo per conoscere proprio la storia di un giovane che da ricco che era, ha rinunciato a tutto, perché sentiva che solo nel Vangelo e nell’amore di Cristo riusciva a sfamare fino in fondo al sua fame di felicità e la sua voglia di vivere.

Giovanni don