La sfida del buio

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In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!»
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!»
Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
(dal Vangelo di Marco 10,46-52)

Quando si entra in un luogo molto buio per doverlo attraversare venendo da un luogo al contrario molto luminoso, a tutti capita quella sensazione sgradevole di non vedere nulla e di sentirsi incapaci di andare avanti. L’esperienza insegna che basta solo attendere un po’ che gli occhi si abituino, e basta pochissima luce per riuscire ad orientarsi senza problemi nell’oscurità. In quelle occasioni ci vien subito da dire “non ci vedo!”, ma il problema non sta nell’incapacità assoluta di non vedere, ma solo del tempo necessario all’occhio di adattarsi alla poca luce. Ci vuole solo un po’ di pazienza e fiducia.
Mi sono immedesimato in questo cieco raccontato nel Vangelo lungo la strada verso Gerico. Nel cieco mendicante che urla a Gesù, rivedo la mia incapacità di vedere, non tanto dal punto di vista fisico, ma soprattutto dentro la mia vita e attorno a me la vita delle altre persone. Vedo anche la mia poca capacità di “vedere” Dio nella mia vita, al punto da sentirmi spesso smarrito e nel buio spirituale.
In questo cieco sono rappresentati gli stessi discepoli di Gesù che più volte dimostrano di vederci spiritualmente assai poco, abbagliati dal desiderio di gloria e potere, e che non riescono a vedere il vero volto di Gesù (come nell’episodio di Giacomo e Giovanni che chiedono a Gesù di sedere alla destra e sinistra). E Gesù nella guarigione del cieco Bartimeo vuole guarire i discepoli e in fondo anche me e chiunque nella fede come nella vita si sente nel buio e perso.
E’ singolare nel racconto il modo di agire di Gesù, che non si avvicina al povero malato, ma lo fa chiamare, rendendolo protagonista della sua stessa guarigione. Gli propone una sorta di cammino di liberazione dalla cecità spirituale, che lo porti ad abbandonare la sua posizione sul margine della strada insieme alle sue sicurezze (il mantello) per accettare una nuova visione del mondo e di Gesù.
Ci vuole coraggio per cambiare e iniziare a vedere se stessi, gli altri e Dio in modo diverso. Ci vuole il coraggio di ascoltare una chiamata che ci rimette in moto interiormente.
In questi giorni la Chiesa con il Sinodo sulla famiglia sta cercando questo coraggio. Accettare il Vangelo come punto di riferimento significa non rimanere comodi e sicuri, ma mettersi alla sequela di Gesù che è in cammino sulla strada della storia. La Chiesa rischia di sembrare cieca (e anche sorda) se non apre gli occhi al mondo con lo sguardo di Gesù. E come chi entra in una stanza buia e con pazienza cerca di vedere oltre il primo impatto di totale oscurità, così anche noi come cristiani dobbiamo armarci di coraggio e andare, anche se all’inizio a tentoni, verso il mondo che ha bisogno di noi e nel messaggio di luce che abbiamo ricevuto in consegna.

Giovanni don

Nel Flusso dell’Amore di Dio

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In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
(dal Vangelo di Giovanni 15,9-17)

Ci sono esperienze nella vita che non è possibile raccontare e spiegare senza la consapevolezza che vengano di fatto “ridotte” da qualsiasi parola si usi.
Impossibile raccontare quello che si prova quando ci si innamora. E’ davvero arduo trasmettere con le parole la bellezza di un paesaggio meraviglioso. Anche una esperienza di dolore profondo e un lutto non sono mai pienamente descrivibili con le parole specialmente se l’esperienza di dolore ci tocca da vicino. Le parole aiutano a capire le esperienze vissute ma spesso le semplificano troppo e succede anche che sminuendole le “rovinino”. Forse solamente i grandi poeti sanno usare le parole nel modo giusto per raccontare la vita, i sentimenti e l’amore…
Ma io non sono un poeta, e ho paura nel cercare di “spiegare” le parole del Vangelo di questa domenica senza di fatto “ridurle”. Sento infatti le parole del Vangelo “avvolgenti” e indescrivibilmente luminose per il cuore e la vita.
E’ dunque questa la mia proposta di spiegazione per questo brano di Vangelo che nel capitolo 15 di Giovanni: lasciamoci avvolgere da queste parole di Gesù immaginandoci il Maestro che sta parlando a me, a noi adesso.
Questo amore che viene da Dio è proprio una linfa vitale che scorre dalla vite e vuole arrivare fino all’ultimo tralcio perché riesca a portare quel frutto d’amore che può far nascere.
Leggendo e rileggendo le parole di Gesù che l’evangelista e discepolo Giovanni riporta in questo brano, sento che la direzione dell’amore è principalmente da Dio verso l’uomo, verso di me, e non il contrario, se non in minima parte. “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi… rimanete nel mio amore… perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena… Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri”.
Prima ancora che nella testa come ragionamento, sento queste parole come dono spirituale profondo che vuole dare vita a tutto quello che sono: mente, cuore, azioni, relazioni… E’ un flusso di amore che mi fa intravedere il cielo aperto realmente anche in quei momenti in cui mi sento solo, o quando la vita mi mette alla prova e ho la tentazione di pensare che prevalga il male dentro e fuori di me.
Sento che queste parole mi portano a guardare con fiducia il mondo ed ad amarlo con quell’amore che viene dal cielo senza interruzione.
Sento che queste parole mi invitano a non fuggire dalla realtà della mia vita e della storia ma ad affrontarla con quella fiducia che anche Dio possiede e che lui stesso mi ha messo dentro. Il Padre ama l’umanità e lo dimostra mandando il Figlio Gesù che mette se stesso nelle mani degli uomini chiamandoli amici e non trattandoli mai da servi.
Voglio avere anche io questa fiducia e questo sguardo positivo, superando la logica che spesso porta gli uomini a servirsi l’uno dell’altro, ma sentendo il mio prossimo come amico e fratello per il quale dare la mia vita come ha fatto Gesù.
Sembra incredibile, ma le parole di Gesù suggeriscono al mio cuore di non mettere al primo posto Dio, ma di mettere l’uomo al primo posto nel mio impegno concreto di amare. Se quale volta è bene che alzi lo sguardo al cielo pensando a Dio, è più importante che abbassi lo sguardo verso l’uomo e non smetta di amare, proprio come fa il Padre, con quell’amore che dall’alto è sceso in me, perché porti frutto e io sia felice di amare e sentirmi amato.

Giovanni don

 

Gesù è risorto non solo a parole

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La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
(dal Vangelo di Giovanni 20,19-31)

Un amico missionario mi ha ricordato che proprio in questi giorni ricorre il trentesimo anniversario della morte nelle Filippine di un giovane missionario del PIME (pontificio istituto missione estere), Padre Tullio Favali, originario di Mantova. Padre Favale è una delle tante vittime della violenza che in varie forme, luoghi e tempi si accanisce su chi testimonia con parole e gesti la propria fede in Gesù.
Mi ha colpito quello che ho letto di padre Tullio. Questo prete, allora poco più giovane di me adesso, aveva una grande ansia missionaria chiusa dentro, e solo dopo diversi anni di ricerca dentro e fuori dagli ambienti ecclesiali, finalmente arriva alla consacrazione come prete missionario nel mondo, specialmente verso i più poveri. E così nel 1984, prete da pochi anni, viene assegnato alla missione di Tulunan nelle Filippine, in un momento storico difficilissimo per quella regione, scossa dalle tensioni tra il regime dittatoriale alla fine e i ribelli comunisti. Padre Tullio viene ammazzato proprio mentre soccorre un catechista ferito, affrontando (come narrano le cronache nel martirio) a braccia disarmate e aperte il suo uccisore.

padre Tullio Favali, missionario (1946-1985)

In una delle ultime lettere all’amico padre Gilberto Orioli, il 27 marzo 1985, padre Tullio scrive: «… non mi resta che immergermi in questo mondo e camminare a fianco di questa gente, nella comunione fraterna e condivisione. Il lavoro è tanto e il compito affidatoci è grande: però non siamo soli, un Altro ci sorregge e viene incontro alla nostra debolezza. Coraggio, dunque. Diciamocelo reciprocamente»
Ho subito collegato queste parole a quelle che Gesù risorto dice agli impauriti discepoli barricati nel Cenacolo, dopo che il Maestro è stato preso, condannato e ucciso sulla croce. L’annuncio della resurrezione era arrivato ai suoi amici, ma sembra non esser stato efficace a sconfiggere le paure e a farli uscire per diffondere questo messaggio. Paradossalmente è proprio Tommaso, non presente nel rifugio, a dimostrare un coraggio ad uscire che agli altri mancava.
Gesù appare ai discepoli, sapendo che non si muoveranno solo con delle parole, ma solo facendo davvero esperienza viva di resurrezione. Appare e dona la pace.
Quando dice “pace a voi”, non è un banale saluto di circostanza e nemmeno una esortazione morale (dovete essere in pace…), ma è un annuncio che la pace è davvero con loro, anche se in mezzo a difficoltà e paure. Ed è questa pace-felicità profonda che li può muovere ad uscire e diventare loro stessi segno di pace per gli altri e per il mondo intero.
Il primo compito degli apostoli non è raccontare una storia del passato, ma essere segno della misericordia che è dentro quella storia, che è sempre attuale.
Sono chiamati a portare pace e perdono, ad accogliere e rassicurare il prossimo, e con tutto questo danno concretezza alle parole “Gesù è risorto”, che altrimenti diventerebbero solo parole al vento che non convincono nessuno.
Infatti i primi apostoli sono i primi a sperimentare il fallimento di un annuncio fatto solo di parole. Tommaso non crede a quello che gli dicono e dovrà fare anche lui esperienza di Gesù risorto, vedendo quel corpo segnato dalla croce e che ora è vivente.
E’ questa la via della predicazione che la Chiesa da allora ha iniziato e non ha mai concluso. E’ la predicazione fatta di atteggiamenti e gesti concreti di resurrezione. Se Tommaso è stato convinto vedendo i segni reali della passione nel corpo risorto di Gesù, a tutti gli altri venuti dopo (tra i quali anche noi) i segni sono quelli dell’amore fraterno, della vita donata per il vangelo, del servizio ai poveri, dell’impegno a costruire un mondo di pace.
Questi sono i segni con i quali si comunica oggi che Gesù è risorto, e sono segni davvero efficaci che possono convertire il prossimo.
Padre Tullio Favali, immerso in segni di morte di un popolo povero e segnato dalla paura, ha creduto che la resurrezione si annuncia con la vita e dando segni concreti di pace. Ogni missionario (non solo i preti e religiosi…ma ogni cristiano) annuncia che “Gesù è risorto” diventando lui stesso segno di amore, come i segni della passione che hanno convinto Tommaso e gli altri. Questa è la testimonianza: in Cristo la morte per amore genera vita, e l’odio non uccide mai l’amore vero.

Giovanni don

Avvolti dalla preghiera di Gesù

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In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
(dal Vangelo di Marco 9,2-10)

Chi è Gesù?
L’amato da Dio…
Chi siamo noi?
Gli amati da Dio…
Qual è la nostra missione?
Amare come Gesù…
Questo amore che avvolge l’esistenza umana è come quella luce che avvolge Gesù e i suoi discepoli, che in una frazione di tempo, comprendono la vera identità di Gesù, e sentono una sensazione profonda di bellezza (che va oltre gli occhi e arriva all’anima) che vorrebbero fissare e trattenere come un fuoco sacro attorno al quale costruire un tempio perché lo custodisca in eterno. “E’ bello per noi stare qui…” è detto da Pietro, e interpreta sicuramente la sensazione di pace totale che coinvolge anche gli altri suoi due amici presenti con lui sul monte della Trasfigurazione di Gesù.
Ieri sera con gli adolescenti e giovani abbiamo vissuto un incontro di preghiera, che prevedeva un iniziale momento di riflessione sul Vangelo e poi un tempo di adorazione eucaristica in chiesa, curata dal nostro coro giovanile parrocchiale. Tutto è stato preparato con cura sia nei testi che nell’ambientazione in chiesa e nei canti. Ci siamo trovati in un luogo esterno alla chiesa, un’aula parrocchiale per il primo momento di lettura e condivisione del brano di Vangelo.
Poco prima di iniziare, aspettando gli ultimi ritardatari, mi sono guardato attorno e anche dentro di me. Avevo il desiderio che fosse un momento “bello” per i ragazzi, e che sentissero questa esperienza particolare di preghiera come qualcosa che alla fine li rappacificasse profondamente con se stessi e con Dio. Volevo davvero che la loro sensazione finale fosse come quella di Pietro nel Vangelo “che bello per noi stare qui…”.
Abbiamo veramente bisogno di momenti come questi, di pace, di armonia con Dio e con la nostra vita, perché sembrano essere di più le occasioni in cui diciamo “è brutto per me stare qui…” quando affrontiamo le difficoltà delle relazioni, quando sentiamo la fragilità del corpo, quando siamo delusi nelle aspettative, quando affrontiamo lutti e distacchi dolorosi…. Sono davvero tante le occasioni in cui sentiamo che “non è bello stare qui” anche nell’ambiente religioso, quando lo sentiamo lontano dalla vita, quando ci scontriamo con testimonianze contraddittorie e quando Dio ci viene testimoniato come “nemico” delle nostre libertà e delle nostre aspettative.
Gesù porta sul monte i 3 discepoli anche per noi; e loro, che avranno bisogno ancora di un lungo cammino per capire quel che succede, lo fanno arrivare a noi nel racconto del Vangelo e nella testimonianza della loro vita.
Guardando i ragazzi attorno al tavolo prima di iniziare la preghiera, ho avuto la sensazione di una distanza enorme tra le mie aspettative e le loro, tra quello che avevo in mente io per quella preghiera e quello che loro pensano del pregare e delle varie occasioni di preghiera che facciamo di solito in parrocchia, messa compresa. Era quasi tentato di lasciar perdere, anche perché erano tante le assenze e non tutte per impedimenti davvero insormontabili.
Alla fine l’incontro di preghiera lo abbiamo fatto, ed è durato quasi un paio d’ore. L’abbiamo fatto perché è stata una provocazione anche per me, che forse vivo la preghiera e in particolare la messa, con il rischio dell’automatismo sterile o solo per un obbligo che non arriva al cuore. Ho voluto scommettere con gli adolescenti e giovani che quel che avremmo vissuto avrebbe fatto sicuramente breccia almeno un po’ nella loro corazza che in fondo è anche la mia, per farci sperimentare quella bellezza spirituale profonda che ci fa conoscere Gesù come l’amato che ci ama, che ci fa sentire amati a nostra volta, e chiamati ad amare chiunque abbiamo accanto.
Nel cammino della Quaresima, con l’invito ad una preghiera più attenta e vera, ancora una volta siamo provocati a non guardare a quello che dobbiamo togliere e rinunciare, ma a quello che possiamo sperimentare di bello e guadagnare: l’amore avvolgente e luminoso di Dio per me e il prossimo.

Giovanni don

 

Deserto: crash-test per la fede

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In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
(dal Vangelo di Marco 1,12-15)

Stavolta il taglio operato dai redattori del libro delle letture della domenica rischia di non farci comprendere il significato del racconto che l’evangelista Marco ha pensato tutto unito e consequenziale.
Facciamo qualche passo indietro del testo…

“Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».” (Marco 1,11)

E al posto della frase generica messa all’inizio (“in quel tempo”) bisogna lasciare quello che Marco ha scritto “Subito dopo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto….”
L’evangelista Marco, a differenza dei suoi due colleghi Luca e Matteo, dedica pochissime righe nel raccontare quello che Gesù ha passato nel deserto all’inizio della sua vita adulta da Maestro, ma vuole sottolineare lo strettissimo legame tra il Battesimo nel Giordano e questa esperienza.
Possiamo dire che nei versetti 11 e 12 del primo capitolo del Vangelo, abbiamo la sintesi dell’esperienza di Gesù e la sua identità, che verrà poi spiegata e approfondita in tutto il resto del racconto.
Gesù chi è? E’ l’amato da Dio suo Padre… Questa è la rivelazione fatta in modo solenne proprio nel momento in cui Gesù si manifesta insieme ai peccatori nel fiume Giordano con Giovanni il Battista.
Lo Spirito Santo, cioè l’amore totale di Dio, scende su quest’uomo della Galilea, e lo avvolge totalmente con una investitura che non verrà mai meno, anche nei momenti più bui della sua missione.
Lo stesso Spirito di Dio lo spinge ancor più radicalmente dentro l’esperienza umana: il deserto
Il deserto ricorda l’esperienza di liberazione del popolo di Israele, che nel deserto ha imparato a conoscere la libertà e ad essere popolo di Dio, in mezzo alle tante prove e alla continua tentazione di tornane alla schiavitù d’Egitto.
Gesù nel deserto manifesta la sua totale adesione e solidarietà con l’umanità, che vive le aridità e le prove del deserto ogni giorno, in ogni luogo della terra e in ogni tempo.
Marco non ci descrive in modo dettagliato quali sono le tentazioni che deve affrontare Gesù in quei quaranta giorni. Possiamo quindi benissimo metterci le nostre prove di vita, le nostre tentazioni e fatiche, e le fatiche di vivere di ogni essere umano: sono anche quelle di Gesù. E Gesù sceglie liberamente di affrontarle tutte con noi e per noi.
Gesù in tutta la sua esperienza umana fino alla morte in croce affronterà molte prove e la continua tentazione di lasciar perdere, di scegliere la via facile del potere e della ricchezza e di pensare solo a se stesso.
I quaranta giorni nel deserto mettono a dura prova la sua fede nell’essere l’amato da Dio, che ha sentito con le orecchie e soprattutto con il cuore il giorno del Battesimo nel fiume Giordano.
Con un linguaggio poco biblico, possiamo davvero dire che il deserto è per Gesù come il crash-test che viene fatto ai nuovi modelli di automobili, per vedere come affrontano le varie situazioni limite della guida: è il suo “crash-test” della fede, dell’abbandono in Dio.
E come le case automobilistiche fanno per noi i vari crash-test ai modelli di auto prima di vendercele, così Gesù ha sperimentato le prove per noi, per darci questo annuncio, cioè che siamo vincitori sul male, su tutto ciò che potrebbe allontanarci da Dio e dalla vera vita. Gesù ci mostra che “l’anti-Dio” non ha l’ultima parola e che il nostro deserto alla fine non cancella l’amore di Dio che è stampato nel nostro essere più profondo.
Questi quaranta giorni di deserto simbolico che sono la quaresima, sono una buona occasione per sentire Gesù non solo alla fine di un percorso fatto di pratiche religiose, rinunce e digiuni, ma per sperimentare che Gesù è già con noi nel deserto della nostra vita e accanto a noi affronta le nostre prove e tentazioni.

Giovanni don

 

 

Nella casa di Pietro

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In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
(dal Vangelo di Marco 1,29-39)

 

Una signora anziana malata e a letto, a cui ho visitato in questi giorni, mi ha detto che la cosa che le pesa di più della sua condizione è proprio quella di sentirsi inutile e impotente. Non può più prendersi cura dei figli e dei nipoti, e questa è davvero la cosa che la fa soffrire di più. Questa sofferenza è quella che probabilmente prova anche la suocera di Pietro, anziana che Gesù visita e guarisce nella casa dell’apostolo. E’ significativo che appena guarita la donna si rimette al servizio, facendo del dono della guarigione ricevuta da Gesù un dono che restituisce ad altri.
Per raccontarci di questa guarigione l’evangelista Marco ci fa entrare in una casa importante, quella di Simon Pietro e di suo fratello Andrea a Cafarnao, sulle rive del lago di Galilea.

resti della casa di Pietro sotto la moderna Chiesa in ricordo di Pietro Cafarnao, Galilea


La casa di Simone c’è ancora, e gli archeologi hanno più di un elemento per dire che quelle quattro pareti, poste sotto la chiesa costruita sul sito archeologico dell’antica Cafarnao, sono proprio dell’apostolo. Infatti sono state trovate tracce piccole ma determinanti che fanno capire che proprio in quella casa di pescatori si ritrovava una primitiva comunità legata al ricordo di Pietro. Questa casa si trova poco distante dalla sinagoga della città, anch’essa conservata, da dove Gesù e gli apostoli si muovono subito dopo il culto del sabato per andare proprio in questa casa dove giace malata la suocera di Pietro.
E’ sabato, e in quel giorno sacro non è permesso altro che pregare e fare il minimo indispensabile, ma soprattutto nessun lavoro, per non offendere Dio e la sua Legge.
Ma è proprio di sabato che Gesù opera questa guarigione, coinvolto dai suoi discepoli che hanno intuito che il Maestro va oltre le regole religiose, con una autorità riguardo le cose di Dio che nessun altro ha.
Gesù trova una donna che è immobilizzata da una febbre che le impedisce di vivere e di trovare un senso alla sua esistenza. Possiamo immaginare quelle quattro pareti domestiche immerse in un clima di immobilità e dolore, come spesso accade nelle nostre case quando la malattia di anche uno solo dei componenti della famiglie costringe lui o lei all’immobilità.
Gesù, che è appena uscito dalle pareti “sacre” della sinagoga, entra nelle pareti altrettanto “sacre” della vita umana, e possiamo davvero affermare che per lui non c’è differenza e separazione tra sacro e profano, tra tempio e vita, tra l’essere rivolti a Dio e l’essere rivolti all’essere umano. Questo si vede benissimo in tutto quel che accade dentro la casa di Pietro: Gesù, proprio nel giorno in cui si dovrebbe essere tutti solamente per Dio, prende per mano questa donna e la risolleva (termine che richiama nel greco la resurrezione). Compie un gesto apparentemente “impuro” toccando una donna malata, ma in realtà per Gesù è proprio nel prendersi cura delle ferite fisiche e interiori della suocera di Pietro che santifica il sabato e rende gloria a Dio.
E la donna finalmente può ritrovare la sua dignità non solo perché guarita e capace di darsi da fare, ma soprattutto perché non è segno di maledizione ma di benedizione, e Dio le fa visita proprio nel momento della sua massima debolezza.
Ancora una volta Gesù sta istruendo i suoi discepoli e attraverso loro istruisce anche noi oggi, e la casa di Pietro diventa modello di come può e deve essere la comunità cristiana.
La Chiesa è la casa dove ci si prende cura gli uni degli altri e dove nell’amore reciproco si rende culto a Dio. I cristiani guardando al povero e prendendosene carico arrivano direttamente a Dio, proprio come Gesù ha fatto.

Giovanni don

 

Un’autorità che non si impone

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In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi.
Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.
(dal Vangelo di Marco 1, 21-28)

Ieri sera, trovandomi con un gruppo di giovani scout per un momento di riflessione, dopo aver letto questa pagina del Vangelo, ho chiesto loro un po’ a bruciapelo: “C’è qualcuno che ha una particolare autorità nella vostra vita? Chi nella vostra vita è un punto di riferimento determinante in quello che dice e in quello che fa…, e perché?”
Mi sono reso conto che la domanda così posta non è affatto facile, e ho visto qualche volto un po’ smarrito.
La loro età (adolescenti e giovani) è quella in cui in generalmente si sfugge a tutto ciò che è autorità, nella ricerca di una propria autonomia di giudizio e azione, e c’è una sorta di “cambio di pelle” nella crescita verso l’età adulta per affermare la propria libertà.
Ma siamo sicuri che l’obiettivo dell’età adulta è non avere nessuno come autorità? Essere liberi vuol dire non avere punti di riferimento e non avere in assoluto alcuna guida?
Il Vangelo ci racconta di Gesù che insegna nella sinagoga di Cafarnao, nel luogo e nel giorno più importanti per il cammino di crescita spirituale dell’ebreo.
Non ci viene detto subito cosa insegnava (il Vangelo lo racconta in seguito) ma ci viene mostrato la reazione di coloro che lo stanno ad ascoltare: tutti sono stupiti e gli riconoscono una autorità assoluta che soppianta quella degli scribi, cioè i teologi ufficiali e quelli che ritenevano di essere esperti di Dio. Gesù è un vero maestro che “mette a tacere” gli altri maestri, quelli che poi si scateneranno contro di lui per farlo tacere a loro volta: scribi e farisei. E questa lotta di contrapposte autorità si manifesta fin da quel momento, con quel indemoniato che si mette a gridare contro Gesù. Questo personaggio, che stranamente si trova nella sinagoga, si scatena solo quando una vera autorità si mette a parlare. Gesù ha un insegnamento che mette in discussione e demolisce le false sicurezze di una religione più fondata sulla forza della paura, sul rispetto delle regole e sulla chiusura verso l’esterno. Gesù insegna un nuovo modo di relazionarsi con Dio e con gli altri fondato sull’amore e il servizio, e questo non può che irritare chi predicava in senso contrario.
Gesù però in questo modo mostra una autorità superiore, perché per primo vive quello che insegna e non fonda le sue parole sulla paura, sul controllo delle menti e della vita, ma sull’amore e la fiducia nei discepoli. Nel racconto infatti non scaccia l’indemoniato, ma lo libera da quel fondo di male che un modo sbagliato di vivere la religione (quello coltivata da scribi e farisei) lo teneva prigioniero. Gesù è un maestro che libera e non sottomette, non obbliga nessuno ma propone una strada che per primo percorre. E sappiamo bene che proprio sulla croce Gesù mostrerà la sua massima autorità, portando fino in fondo il suo insegnamento con il dono totale di sé. La croce sarà il suo più alto e glorioso pulpito dove insegnare, molto diverso dai pulpiti dorati e alti di coloro che volevano insegnare con pugno e con segni di potere.
I suoi discepoli sono chiamati ad imparare questo modo di vivere l’autorità, e che dovranno poi esercitare quando il Maestro avrà lasciato loro spazio. Non sarà facile… e la tentazione di confondere l’autorità con il potere sarà sempre presente.
Dopo un po’ di silenzio qualche giovane scout ha iniziato a rispondere alla domanda che avevo posto. Qualcuno ha individuato come autorità nella propria vita un genitore, che nonostante tutti gli scontri inevitabili in famiglia, ha sempre dimostrato di essere presente e di prendersi cura dei figli. Qualcuno ha individuato come autorità e punto di riferimento i fratelli che pur vicini di età sono protettivi e buoni consiglieri. Altri hanno visto come autorità un insegnate di scuola che sempre ha creduto in loro e che si è fatto vicino ben oltre il “dovere lavorativo”…
E’ proprio vero che l’autorità non viene dal potere o dalla capacità di imporla con la forza o il ricatto morale, ma viene dalla capacità di amare e di mettersi al servizio, proprio come ha fatto Gesù.
Questo passo di Vangelo diventa un’occasione di verifica anche dello stile che abbiamo dentro la comunità cristiana e in particolare per chi ha un compito di esercitare l’autorità e di guida (preti, consiglio pastorale, catechisti, responsabili di gruppi, animatori…). Il male più grande è proprio quando in una comunità (qualsiasi tipo di comunità, anche quella sociale…) sembra comandare solo chi ha più potere economico, di persuasione, di forza fisica.
Chiediamo che il Signore pronunci di nuovo quella frase liberatoria del Vangelo: “Taci, esci!” in modo che il male del potere e della violenza esca da ogni comunità, e così risulti vincente il suo stile, un’autorità che non si impone, perché trova forza nell’amore totale che vive per primo quello che insegna.

Giovanni don

Il marketing del Vangelo

regno dei cieli vicino 3TOb (colored)

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.
(dal Vangelo di Marco 1,14-20)

“Da domani mattina iniziano i saldi di stagione! Trenta, cinquanta, settanta per cento di sconto su tutta la merce! Un’occasione da non perdere!!”
Quando sta per partire il periodo di forti sconti sui prodotti di fine stagione, anche i telegiornali (come i giornali) dedicano ampi servizi con lo scopo di informare e di invitare la gente ad uscire di casa per non perdere buoni affari. E i servizi televisivi mostrano la gente che affolla i negozi cercando di accaparrarsi i prodotti desiderati prima che sia qualcun altro a portarseli via. La cosa più importante infatti è proprio non attendere troppo per approfittare dell’occasione unica…
E anche a me è capitato a volte di entrare in un negozio per acquistare qualcosa ma avendo atteso troppo per pigrizia, ho trovato gli scaffali vuoti proprio di quel che poteva andarmi bene al prezzo più basso.
Vorrei leggere proprio in quest’ottica di “urgenza positiva” l’annuncio di Gesù “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”, e non come minaccia inquietante, come spesso la sentiamo o ci viene spiegata.
Ovviamente l’accostamento dell’annuncio dei “saldi di fine stagione” con l’annuncio del “regno di Dio vicino” è provocatorio, ma mi spinge a ripensare alla predicazione di Gesù come ad una offerta di vita e di fede estremamente vantaggiosa, che risponde a quello che davvero desidero.
Gesù annuncia che il regno di Dio non è fuori dalla storia, ma è ora, adesso, e non c’è da perdere questa occasione. Se guardiamo al telegiornale e sugli altri media, sembra davvero che sia più presente il regno del male che il regno del bene: terrorismo, guerre, cattiverie, distruzione dell’ambiente…
Ma anche attorno a noi, nello spazio della nostra vita personale, sembra insinuarsi maggiormente un mondo negativo fatto di solitudine, tradimento di affetti, divisioni improvvise, e allora siamo davvero tentati di non credere più nel bene, diventando irrimediabilmente pessimisti e chiusi.
L’annuncio di Gesù vuole scuoterci e ci dice “il tempo è adesso, per te ora, per chi ti è vicino e per il mondo! Il regno di Dio, regno di pace, solidarietà, amore, unità, è vicino, alla portata di mano! Convertiti, cioè punta su questo e non lasciare che il cuore sia abitato da pessimismo e egoismo! Credici davvero in Dio, nella sua Parola, negli insegnamenti del Vangelo”
E’ dunque un invito a non perdere tempo e uscire non solo di casa, ma soprattutto dai rifugi sicuri che ci siamo fatti nel nostro angoletto di vita, dove pensiamo solo a noi stessi e ai pochi cari che abbiamo intorno.
Gesù stesso nel racconto del Vangelo non perde tempo e chiama subito una piccola comunità attorno a se per questa missione di annuncio positivo. E sorprende l’immediatezza con la quale i primi discepoli, poveri pescatori, lasciano tutto per andar dietro a Gesù. Lasciano tutto perché sanno che avranno molto di più da questo maestro che ha per loro parole positive e rinnovatrici.
Quello che dobbiamo chiedere a Dio è crederci a questo suo annuncio, anche oggi e nel nostro mondo, e che non ci chiudiamo in un inutile pessimismo che non cambia la realtà.
Se i saldi di fine stagione durano pochi giorni e alla fine ci rallegrano nel portafoglio, l’annuncio del regno di Dio è sempre presente e non finisce mai. Sta a noi mettere entusiasmo, orientare la nostra vita al messaggio del Vangelo e credere che abbiamo solo da guadagnare alla sequela di Gesù.

Giovanni don

L’importanza della domanda

tu sei pietro (colored)2toB

In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse:«Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.
Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.
(dal Vangelo di Giovanni 1,35-42)

Che ci stiamo a fare qui? Perché vado a messa questa domenica?
Vorrei iniziare con questo interrogativo la celebrazione di domenica prossima.
È un interrogativo che ovviamente pongo anche a me stesso e la cui risposta non è affatto scontata.
Che cosa cerco dal momento che inizio a mettermi in moto mentalmente e poi fisicamente per andare in chiesa a messa?
La domanda è fondamentale e alla fin fine non sono io a porla alla comunità, ma viene posta dal Vangelo stesso.
Nel racconto del suo vangelo, come prima frase pronunciata da Gesù, Giovanni mette sulla bocca del maestro una domanda: “che cosa cercate?”. Si sta rivolgendo ai due discepoli del Battista che su invito-guida di quest’ultimo si muovono verso questo nuovo maestro. Gesù ai due che si mettono a seguirlo si rivolge in maniera personale invitandoli a prendere coscienza delle motivazioni profonde del loro essere li. Vuole conoscerle lui ma è importante che ne siano coscienti anche loro, forse perché dovranno crescere e maturare anche in queste motivazioni che li spingono a seguire Gesù.
“Cosa cercate?” chiede Gesù. E loro rispondono con un’altra domanda: “…dove dimori?”.
Questa è una domanda che manifesta una ricerca di relazione e non è una semplice richiesta di risposte chiuse da catechismo o una superficiale richiesta materiale di avere un miracolo…
I due discepoli vogliono “stare” con Gesù dove lui “sta”, non tanto in una casa o ambiente chiuso e circoscritto, ma nel luogo o luoghi dove lui condurrà la sua vita e la sua azione. In questo vedo proprio il desiderio di una fede vera e significa mettersi in gioco veramente e non solo a tempo determinato o in qualche rara occasione.
E’ anche questo il nostro desiderio? Abbiamo voglia di metterci in gioco come discepoli veri di Gesù e scoprire con lui dove abita e opera? Oppure in fondo troviamo più facile pensare che Gesù abbia dimora solo in un qualche luogo “sacro” circoscritto sia nello spazio (una chiesa, un santuario, una immagine sacra…) che nel tempo (quella messa, quel momento di preghiera, quell’occasione di visita al santuario…)?
Tutto il Vangelo di Giovanni (e tutta la Scrittura del Nuovo Testamento) ci indicano dove dimora Gesù e dove possiamo trovarlo: l’umanità e la storia.
Gesù ci invita a stare con lui e a coltivare la relazione con lui attraverso lo stare con l’umanità intera, luogo prediletto della sua casa: “il Verbo di fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”
Se veniamo a messa è proprio per imparare questo, cioè a cominciare a sentire la comunità stessa che si raduna, nella preghiera e con lo stile della carità, come luogo scelto da Gesù come propria casa.
Veniamo a messa perché proprio nell’ascolto della Parola impariamo a riconoscere il volto di Gesù nella vita di tutto i giorni, nelle persone che incontriamo e nello stile di vita che costruiamo. La Parola di Dio, letta e pregata insieme, è capace davvero di rispondere alle nostre domande più profonde di senso e di vita, e ci indica l’autore di ogni risposta, che è Gesù maestro.
Veniamo a messa, perché nella comunione con il pane e vino, diventiamo davvero tutt’uno tra noi e Gesù e sperimentiamo con un segno forte, che davvero Lui abita in noi e noi siamo parte di Lui.
Ma la domanda (“che cosa cercate?”) non va posta a noi stessi solo una volta, ma in continuazione, perché uno dei “virus” più devastanti dell’esperienza di fede e della comunità cristiana è quello del “dare per scontate le motivazioni” del cammino di fede e della pratica religiosa.
Gesù non dà mai per scontato quel che abita nella nostra testa e nel profondo del cuore e ci invita a fermarci e a porci sempre questa domanda: che cosa cercate?
Quale è la mia e nostra risposta oggi?

Giovanni don

Un Presepe senza confini

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Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
(dal Vangelo di Matteo 2,1-12)

La tradizione del presepe a casa mia c’è sempre stata. Quando mancava una decina di giorni a Natale si iniziavano a sistemare le semplici scenografie con la capanna, le casette, il ponticello e l’immancabile palazzo di Erode a Gerusalemme, aggiungendo poi il fondale e tutte le statuine. Ma non proprio tutte. Infatti la notte di Natale si aggiungeva Gesù bambino e in seguito quelle dei tre re magi.
Sono sempre stare queste ultime statuine le mie preferite, perché aggiungevano alla scena preparata qualcosa di movimentato e per me molto affascinante!
Infatti una volta sistemate le statuine e tutto il resto, nulla più veniva mosso e il presepe aveva un aspetto ovviamente molto statico, se non fosse per i giochi luminosi delle piccole luci decorative. L’unico movimento era proprio quello dei magi, che in maniera molto giocosa collocavamo fin dall’inizio, ma non nello spazio del presepe, ma fuori, con un movimento di avvicinamento progressivo e imprevedibile. Capitava di sistemarli su una porta in alto, oppure di trovarli più vicini ma in basso sul pavimento, oppure su un mobile, nascosti da un vaso. Ognuno di noi si divertiva a spostarli avvicinandoli pian piano alla scena, ma sempre fuori fino al 6 gennaio, quando sarebbero entrati e avrebbero avuto il posto più vicino a Gesù rispetto tutti gli altri personaggi.
L’evangelista Matteo ci racconta proprio così la nascita di Gesù. L’evangelista Luca ci presenta i pastori tra i primi ad accorrere dal bambino, avvertiti da un angelo, per poi ripartire a portare a tutti l’annuncio. Matteo sembra davvero “osare” di più, richiamando attorno alla Sacra Famiglia questi misteriosi personaggi che vengono da lontano e guidati da una stella e da un misterioso invito («Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo»)
Questi osservatori di stelle, mezzo astrologi e mezzo astronomi, la cui fede è misteriosa e di cui non si sa nulla se non che non sono del luogo, fanno un lungo viaggio mossi da un invito luminoso e estremamente attraente. Il loro cammino affronta molte difficoltà, non prima quella del lungo cammino mosso da pochi indizi e anche la difficoltà di una Gerusalemme tutto sommato ostile e di poco aiuto per loro.
Ma è la gioia “la benzina” che muove le loro gambe e non li scoraggia, ed è una gioia che non calerà anche di fronte ad un re dei giudei tutto sommato inaspettato rispetto alle aspettative di come dovrebbe essere un re. E finita la loro visita ripartono ancor più decisi e ispirati non più da una stella ma da un sogno rivelatore, che nella bibbia è segno della voce di Dio che parla al cuore. Sono cresciuti anche nella fede e nella conoscenza di Dio che ora parla loro in modo più chiaro e intimo.
E’ davvero affascinante questo loro venire da lontano, fuori dagli schemi e imprevisti (e imprevedibili). La scena del Natale con questi magi ci racconta fin da subito che l’evento Gesù non si ferma a pochi eletti, ma fa diventare ogni essere umano eletto davanti a Dio e protagonista della sua storia di Salvezza.
Per il Vangelo la scena del presepe quindi si espande e coinvolge tutta la terra, ogni essere umano, da qualsiasi periferia del mondo e dell’esperienza umana provenga.
Quando facevamo il presepe a casa, appena concluse le feste natalizie, smontavamo tutto rimettendo scenografie e statuine nelle scatole fino al Natale successivo. Il gioco del progressivo avvicinamento dei magi non veniva fatto anche per la loro partenza e viaggio di ritorno (come è raccontato nel Vangelo), ma pensandoci sarebbe stato bello farlo, per completare il messaggio dell’Epifania, cioè della Manifestazione del Signore a tutti i popoli.
Ma se i presepi di gesso, legno o plastica rimangono un bel segno smontabile a fine feste, il messaggio di un presepe che non ha più barrire e che si espande fino agli estremi confini della terra lo possiamo tenere installato per sempre nel nostro cuore e nello stile della nostra vita di fede e comunitaria.

Giovanni don