Se non ami non credi

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». (dal Vangelo di Matteo 22,34-40)

Una delle trappole retoriche delle prediche domenicali sono le frasi fatte… Chissà quante volte ci sono cascato anche io, ma per fortuna ogni tanto qualche paziente fedele me lo dice o me lo fa capire. Mi ricordo che una volta in una predica insistevo sul “bisogna amare Dio sopra ogni cosa”, proprio come nella frase del Vangelo di oggi. Dicevo con enfasi e convinzione che la cosa più importante per un cristiano è avere “il proprio cuore rivolto a Dio” e “amarlo in ogni momento e occasione della vita”… Un caro amico alla fine della messa mi avvicina e con un sorriso mi dice “Sei rimasto per aria durante la predica!”, spiegandomi in sintesi che tutto il mio parlare dell’amore per Dio era bello ma privo di concretezza. Alla fine non avevo risposto alla domanda che più importante: come si ama Dio? Nel racconto del Vangelo di questa domenica, a Gesù viene posta la domanda delle domande, proprio dai farisei che avevano nel culto e nella fedeltà a Dio e alle sue leggi il centro della loro vita spirituale: quale è il comandamento principale, quello che riassume tutte le leggi, tradizioni, insegnamenti della religione basata sulla Legge e i Profeti? Gesù dà una risposta che sembra doppia ma in realtà è unica: il grande comandamento è proprio amare Dio con cuore, anima e mente, e amare il prossimo come se stessi. Due parti dello stesso comandamento che Gesù fonde insieme come le due facce dell’unica medaglia che non possono mai stare separate. Amare Dio è amare il prossimo, amando il prossimo amo Dio. Non è possibile separare queste due realtà: se voglio amare Dio non posso non amare chi di Dio è ad immagine e somiglianza, cioè l’essere umano; se amo l’essere umano in modo vero non posso non arrivare ad amare il suo Creatore, anche se non lo conosco o magari ne nego a parole l’esistenza. Il non amare è una sorta di ateismo della vita, anche se con la mente e le labbra affermo di credere in Dio e lo prego. Parlare tanto dell’amore di Dio senza andare verso l’uomo rischia davvero di essere un concentrato di frasi fatte ma inutili e spesso irritanti. Gesù quando parla di amare il prossimo come se stessi, non dice “più di se stessi”, ma “COME se stessi”. Nel prossimo non posso che vedere me stesso, le mie esigenze profonde di amare ed essere amato, compreso, ascoltato, soccorso e sostenuto. Nel prossimo vedo me stesso, come Dio vede se stesso proprio in me che porto la sua immagine da sempre. Gesù indubbiamente amava Dio Padre sopra ogni cosa, con tutto il cuore, l’anima e la mente, e lo insegnava ai suoi discepoli proprio prendendosi cura di chi era più lontano, solo e malato, vedendo se stesso persino nei più piccoli e rifiutati. Davvero la via di Dio è la via dell’uomo: per trovare Dio e amarlo, devo cercarLo nell’uomo e chinarmi su di lui… e non è una frase fatta, ma un insegnamento da vivere, concretamente come Gesù ha fatto.

Il funambolo

C’era una volta un celebre funambolo. Tutti riconoscevano la sua stupefacente abilità: nessuno ricordava di averlo mai visto vacillare o cadere.

Un giorno, il circo dove il funambolo lavorava si trovò in serie difficoltà finanziarie.

Il direttore propose al funambolo di alzare il filo e di aumentare la distanza del percorso per attirare più gente.

I lavoratori del circo avevano posto tutta la loro fiducia nel loro funambolo ed erano sicuri di ottenere un successo strepitoso.

Rivolgendosi ai suoi compagni di lavoro, il funambolo chiese loro: “Siete sicuri che ci riuscirò?”.

Tutti risposero: “Abbiamo fiducia in te e siamo assolutamente certi che ci riuscirai”.

L’esibizione del funambolo fu un grande successo. Ogni giorno la gente faceva la coda al botteghino del circo per assistere allo straordinario spettacolo di abilità e di coraggio.

Dopo un anno di successo, il direttore volle procurare al circo una maggiore risonanza e propose al funambolo una prestazione eccezionale per attirare ancora più gente. Propose di sistemare un cavo d’acciaio da una riva all’altra di una cascata vertiginosa e di invitare tutta la gente della regione, i giornalisti e le televisioni per quella esibizione senza precedenti.

Tutti i membri del circo rinnovarono la loro fiducia al funambolo. Questi non esitò e accettò la sfida.

Già pronto per la pericolosissima traversata sull’esile filo, chiese ancora una volta a tutti i compagni se erano sinceri nell’affermare una fiducia illimitata in lui.
“Sì!”, gridarono tutti senza eccezione.

Il funambolo partì e l’impresa riuscì perfettamente, con tutti gli spettatori in delirio.

Improvvisamente il funambolo alzò una mano e chiese di parlare.
“La vostra fiducia in me è grandissima”, disse.
“Certo”, proclamò uno del circo a nome di tutti.

“Allora, vi voglio proporre una prodezza ancora più straordinaria!”.

“Magnifico! Dicci che cos’è. La nostra fiducia in te è sconfinata: qualunque cosa proponi, accetteremo!”.

“Propongo di camminare con una carriola su questo cavo d’acciaio e di fare il viaggio di andata e ritorno. Siccome la vostra fiducia nella mia abilità è senza limiti, chiedo a uno di voi di salire sulla carriola per fare con me la traversata”.

Nessuno volle salire.

Gesù salì su una barca e i suoi discepoli lo accompagnarono. improvvisamente sul lago si scatenò una grande tempesta, e le onde erano tanto alte che coprivano la barca. Ma Gesù dormiva. i discepoli si avvicinarono a lui e lo svegliarono gridando: “Signore, salvaci! Stiamo per morire!”.

Gesù rispose: “Perché avete paura, uomini di poca fede?” (Matteo 8,23-26).

(B. Ferrero)

 

Riassettare le reti

Quand’ero al mare, a me piacevano le lunghe passeggiate lungo la spiaggia, particolarmente se in autunno o in primavera.Spesso incontravo Olindo, detto “il pescatore”. Lo ricordo seduto sulla sponda della sua barca, nell’atteggiamento di chi conversa con gli amici, mentre riassetta la sua rete da pesca. Raramente lo vedevo nell’atto di buttare la rete in mare, né in quello di ritirarla in barca. Eppure, nel suo mercatino che teneva in piazza, non mancava mai il pesce che era sempre fresco e abbondante.Un giorno lo vidi come sempre in atto di cucire le reti. Mi decisi di fargli quella domanda che altre volte passando volevo rivolgergli: “Come mai ti vedo sempre a riassettare le reti? Quando vai a pescare? Quanto tempo dedichi alla pesca e quanto al riassetto della rete?”.”Ovviamente pesco qualche ora e di notte – mi rispose con la pacatezza propria del pescatore – Anni fa’, inesperto com’ero, passavo lunghe ore in barca per la pesca… che non mi rendeva come ora. Avevo troppa fretta di prendere il pesce e non mi curavo della rete, né mi concedevo il tempo di aggiustarla. Il pesce era abbondante, entrava in rete, ma mi scappava quasi tutto attraverso le smagliature. Ora l’esperienza mi ha insegnato che ogni giorno, prima di uscire per la pesca, è importante e prezioso il tempo che dedico a cucire gli strappi. Esco in mare con una rete buona e corredata con l’attrazione di una lampara. Bastano poche ore per prendere il pesce che ti è necessario. Ecco perché vedi che la maggior parte del mio tempo la dedico a cucire e a vendere. Proprio questa mattina ho incontrato l’amico Giulio, responsabile d’una comunità. Vedendomi intento a cucire con pazienza, mi disse: Bravo Olindo, il tuo è un lavoro molto prezioso. Sei un bravo pescatore, perché sei un pescatore «sarto»”.Per una pescagione abbondante, è importante saper “cucire”, “perdere” il tempo necessario a riassettare le smagliature della propria vita, perdonandosi e perdonando precisamente “settanta volte sette”. È la condizione indispensabile per avere Gesù stesso in barca. È lui la luce che attira. Con lui la pesca risulta sicuramente miracolosa.

(Anonimo)

A Cesare le cose, a Dio la persona con il suo cuore

La trappola è ben congegnata: È lecito o no pagare il tributo a Roma? Fai gli interessi degli invasori o quelli della tua gente? Con qualsiasi risposta, Gesù avrebbe rischiato la vita, o per la spada dei Romani o per il pugnale degli Zeloti. Gesù non cade nella trappola: ipocriti, li chiama, cioè attori, commedianti, la vostra vita è una recita per essere visti dalla gente (Mt 6,5)…

Mostratemi la moneta del tributo. Siamo a Gerusalemme, nell’area sacra del tempio dove non doveva entrare nessuna effigie umana, neppure sulle monete. Per questo c’erano i cambiavalute all’ingresso. I farisei, i devoti, con la loro religiosità ostentata, tengono invece con sé, nel luogo più sacro al Signore, la moneta pagana proibita, il denaro dell’imperatore Tiberio, e così sono loro a mettersi contro la legge e a confessare qual è in realtà il loro Dio: il loro idolo è mammona. Seguono la legge del denaro, e non quella della Thorà. I commedianti sono smascherati.

È lecito pagare? avevano chiesto. Gesù risponde cambiando il verbo, da pagare e rendere: Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. Cesare non è solo lo Stato con le sue istituzioni e le sue facce note, ma l’intera società nelle cui relazioni tutti ci umanizziamo. «Avete avuto, restituite», voi usate dello Stato che vi garantisce strade, sicurezza, mercati. Rendete, date indietro (il give back degli anglosassoni), come in uno scambio pagate tutti il tributo per un servizio che raggiunge tutti.

Come non applicare questa chiarezza semplice di Gesù ai nostri giorni di faticose riflessioni su crisi economica, manovre, tasse, elusione fiscale; come non sentirla rivolta anche ai farisei di oggi per i quali evadere le tasse è un vanto?

Gesù completa la risposta con un secondo dittico: Restituite a Dio quello che è di Dio. Siamo immersi nella gratuità: di Dio è la terra e quanto contiene; l’uomo e la donna sono dono che proviene da oltre, cosa di Dio. Restituiscili a Lui onorandoli, prendendotene cura come di un tesoro.

Ogni donna e ogni uomo sono talenti d’oro offerti a te per il tuo bene, sono nel mondo le vere monete d’oro che portano incisa l’immagine e l’iscrizione di Dio. A Cesare le cose, a Dio la persona, con tutto il suo cuore, la sua bellezza, la sua luce, e la memoria viva di Dio.

A ciascuno di noi Gesù ricorda: resta libero da ogni impero, ribelle ad ogni tentazione di venderti o di lasciarti possedere. Ripeti al potere: io non ti appartengo.

Ad ogni potere umano Gesù ricorda: Non appropriarti dell’uomo. Non violarlo, non umiliarlo, non manipolarlo: è cosa di Dio, mistero e prodigio che ha il Creatore nel sangue e nel respiro.

(P. E. Ronchi)

 

S. Luca

Una tradizione leggendaria l’ha voluto pittore e a lui sono state attribuite alcune delle “Madonne nere” venerate in famosi santuari mariani. In realtà, se vogliamo cercare un’altra, vera, professione di Luca prima di divenire evangelista, dobbiamo rifarci a una nota della Lettera di Paolo ai Colossesi: «Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema» (4,14). Luca, dunque, esercitava la professione medica prima di avviarsi sulle strade dell’annunzio cristiano al seguito di Paolo. La sua presenza fa capolino in altri due scritti paolini. Nel biglietto dell’Apostolo a Filemone, Luca è definito «collaboratore» di Paolo (v. 24) e nella Seconda Lettera a Timoteo appare un elogio implicito quando Paolo afferma che «solo Luca è con me» (4, 11).

Medico, dunque, ma soprattutto evangelista, sia collaborando alla missione evangelizzatrice di Paolo sia componendo il suo Vangelo, il più lungo dei quattro, fatto com’è di ben 19.404 parole, il più ricco a livello di vocaboli (Luca usa ben 2.055 termini diversi), il più raffinato dal punto di vista stilistico, dotato di un prologo che ammicca a quelli dei grandi storici greci. I quadri più belli, dunque, Luca li ha dipinti non con il pennello ma con la sua penna. Egli è inoltre autore di un altro affresco grandioso, quello degli Atti degli Apostoli, un ritratto complesso, storico e teologico, della Chiesa delle origini nella quale dominano le figure di Pietro e Paolo.

Appare, dunque, con nettezza la figura di un evangelista, legato pastoralmente a Paolo e al suo dialogo con il mondo greco-romano, un non-palestinese dal punto di vista geografico e culturale, un ebreo ellenista di Antiochia di Siria convertito al cristianesimo, persona colta, favorevole all’opera di espansione missionaria della Chiesa in Grecia e a Roma ove forse compose dopo il 70 i suoi due scritti, destinandoli alla cerchia dei cristiani di matrice pagana. È, infatti, a Roma che egli conduce come a naturale approdo il suo racconto, partito da Gerusalemme, la città che era la radice sorgiva del cristianesimo (Luca la cita ben 90 volte nelle sue due opere su un totale neotestamentario di 139). Il Vangelo è tutto ancorato alla città santa: nella narrazione dell’infanzia di Gesù è il luogo ove egli si rivela; nella parte centrale è la meta a cui è orientata la “lunga marcia” di Cristo con i discepoli verso il suo ultimo destino di umiliazione e di gloria; nella sezione finale è il teatro degli eventi supremi della vita di Cristo. In Gerusalemme si aprono anche gli Atti degli Apostoli, ma sarà a Roma che si concluderanno, non con il martirio di Paolo ma con l’Apostolo che, agli arresti domiciliari in attesa di giudizio, può liberamente proclamare il Vangelo di Gesù (28, 30-31).

Per Luca Gesù di Nazaret è il centro della storia, è per eccellenza il Kyrios, il “Signore”, un termine carico di risonanze perché nelle antiche Bibbie greche usate dai cristiani esso traduceva le quattro lettere sacre ebraiche JHWH del nome impronunciabile del Dio biblico e anche perché era un titolo imperiale. Per ben 103 volte nel Vangelo e per 107 volte negli Atti degli Apostoli Luca chiama Gesù il “Signore” glorioso, che è giudice della storia e che regge tutto l’essere.

Cristo è, però, sempre accanto a chi crede in lui, anche nell’ora della sofferenza e persino del dubbio. Infatti il Risorto, in una scena indimenticabile, va incontro a due discepoli sulla strada che da Gerusalemme conduce e un non meglio identificabile villaggio di Emmaus: si tratta di una pagina di straordinaria intensità, affidata a quell’implorazione finale: «Rimani con noi perché si fa sera e il giorno sta ormai declinando!» (24, 13-35). Il Cristo glorioso della Pasqua non è più riconoscibile con l’esperienza concreta; è necessaria una via superiore di conoscenza, che si attua attraverso l’ascolto delle Scritture e lo «spezzare il pane eucaristico».

Ma se si volesse delineare in pienezza il volto del Cristo di Luca, sul quale deve modellarsi anche il discepolo, si potrebbero individuare tre componenti fondamentali. Iniziamo con la parola amore. Dante nella sua opera latina Monarchia ha coniato questa suggestiva definizione di Luca: scriba mansuetudinis Christi, «scrittore della mansuetudine, della misericordia, dell’amore di Cristo». Per tutto il percorso della sua vita Gesù non è mai venuto meno alla dichiarazione programmatica fatta nella sinagoga di Nazaret: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato ad annunziare ai poveri un lieto messaggio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi e a predicare un anno di grazia del Signore» (4,18-19).

La parabola del Buon Samaritano e la trilogia di parabole della misericordia (la pecora smarrita, la dracma persa e il figlio prodigo) contenute nel capitolo 15, la salvezza offerta al corrotto funzionario Zaccheo, il «discorso della campagna» (6, 17-49), la costante scelta degli ultimi, dei poveri, degli esclusi, il perdono finale offerto al malfattore pentito e ai suoi stessi crocifissori, l’uso frequente del verbo greco splanchnízomai che evoca la tenerezza delle “viscere” materne, sono altrettante testimonianze della validità della definizione dantesca.
Seconda e fondamentale caratteristica del profilo di Cristo e del discepolo secondo Luca è quella della povertà.

Quel «Beati i poveri in spirito» di Matteo diventa per Luca un diretto «Beati voi, poveri» senza alcuna specificazione “spirituale”. «I poveri sono evangelizzati» (4, 18), il povero Lazzaro (16, 19-31) e la vedova che dà “tutto quanto aveva per vivere” (21, 1-4) sono ammirati da Gesù. Mammona, termine fenicio-aramaico che indicava la “ricchezza” (curiosamente ha la stessa radice del verbo ebraico ’mn che esprime il “credere”), è un idolo che acceca. Il giovane ricco non può seguire Cristo se prima non distribuisce ai poveri «tutto quanto possiede» (18, 22). Condannati senza esitazione sono coloro il cui unico scopo nella vita è il moltiplicare risorse e soldi (12, 13-21). Indispensabile è, perciò, fare una scelta radicale quando si vuole seguire Gesù. Alludendo alla vocazione di Eliseo, chiamato dal profeta Elia mentre arava i campi, Cristo dichiara: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il Regno di Dio» (9, 62).

Terzo e ultimo tratto del volto spirituale di Cristo secondo Luca è la preghiera. Nelle svolte decisive della sua vita egli si ritira in preghiera e in dialogo con il Padre. Lo fa dopo il battesimo al Giordano (3, 21), nel mezzo del primo entusiasmo della folla (5, 16), prima della scelta dei dodici apostoli (6, 12), prima della professione di fede di Pietro (9, 18), durante il solenne svelamento della Trasfigurazione (9, 28-29), prima di insegnare ai discepoli la preghiera distintiva del cristiano, il “Padre” (11, 1). Gesù ci esorta a «pregare sempre, senza stancarci» (18, 1). Alle soglie della morte si ha la scena più emblematica, quella della preghiera nell’orto degli ulivi, il Getsemani (22, 39-46), scena che Luca descrive in modo più accurato rispetto agli altri evangelisti, scandendola con ben cinque menzioni della preghiera e incorniciandola con la duplice frase d’apertura e chiusura: «Pregate per non entrare in tentazione!».

Luca col suo Vangelo ha voluto imprimere alla storia dell’uomo – considerata dal filosofo greco Eraclito come «un giuoco di dadi fatto da bambini» (frammento 52) – un senso in Gesù Cristo, il coordinatore di quel groviglio di eventi, salvatore dal male e dall’assurdo che si annida nelle vicende umane, l’«evangelizzatore» della speranza, della libertà e della gioia.

(G. Ravasi)

La felicità

E crescendo impari che la felicità non è quella delle grandi cose.

Non è quella che si insegue a vent’anni, quando, come gladiatori si combatte il mondo per uscirne vittoriosi…

la felicità non e’ quella che affanosamente si insegue credendo che l’amore sia tutto o niente,…

non è quella delle emozioni forti che fanno il “botto” e che esplodono fuori con tuoni spettacolari…

la felicità non e’ quella di grattacieli da scalare, di sfide da vincere mettendosi continuamente alla prova.

Crescendo impari che la felicità è fatta di cose piccole ma preziose…

…e impari che il profumo del caffè al mattino è un piccolo rituale di felicità, che bastano le note di una canzone, le sensazioni di un libro dai colori che scaldano il cuore, che bastano gli aromi di una cucina, la poesia dei pittori della felicità, che basta il muso del tuo gatto o del tuo cane per sentire una felicità lieve.

E impari che la felicità è fatta di emozioni in punta di piedi, di piccole esplosioni che in sordina allargano il cuore, che le stelle ti possono commuovere e il sole far brillare gli occhi,

e impari che un campo di girasoli sa illuminarti il volto, che il profumo della primavera ti sveglia dall’inverno, e che sederti a leggere all’ombra di un albero rilassa e libera i pensieri.

E impari che l’amore è fatto di sensazioni delicate, di piccole scintille allo stomaco, di presenze vicine anche se lontane, e impari che il tempo si dilata e che quei 5 minuti sono preziosi e lunghi più di tante ore,

e impari che basta chiudere gli occhi, accendere i sensi, sfornellare in cucina, leggere una poesia, scrivere su un libro o guardare una foto per annullare il tempo e le distanze ed essere con chi ami.

E impari che sentire una voce al telefono, ricevere un messaggio inaspettato, sono piccolo attimi felici.

E impari ad avere, nel cassetto e nel cuore, sogni piccoli ma preziosi.

E impari che tenere in braccio un bimbo è una deliziosa felicità.

E impari che i regali più grandi sono quelli che parlano delle persone che ami..

E impari che c’è felicità anche in quella urgenza di scrivere su un foglio i tuoi pensieri, che c’è qualcosa di amaramente felice anche nella malinconia.

E impari che nonostante le tue difese,

nonostante il tuo volere o il tuo destino,

in ogni gabbiano che vola c’è nel cuore un piccolo-grande

Jonathan Livingston.

E impari quanto sia bella e grandiosa la semplicità.

(F.  Volo)

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Chiesa per tutti, esclusi compresi!

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In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse:
«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.
Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.
Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.
Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
(dal Vangelo di Matteo 22,1-14)

La comunione eucaristica può essere data o no a coloro che sono divorziati e risposati?
Attorno a questa domanda sembra ruotare l’aspettativa di tutti nei confronti del Sinodo sulla famiglia che in questi giorni si sta svolgendo in Vaticano, con la presidenza di papa Francesco.
Sicuramente è riduttivo pensare che sia solo una questione di dare o meno una concessione sacramentale, cambiando una regola, il significato di questa riunione dei vescovi di Roma. Già il fatto che la Chiesa si interroghi e cerchi, spesso con fatica e qualche tensione, di rispondere a questa questione che coinvolge sempre più coppie di sposi cristiani e famiglie, è un gran risultato e un bel segno di speranza.
In ballo non c’è solo la possibilità per tanti cristiani di accodarsi o meno alla fila della comunione, ma il significato stesso dell’esperienza di Chiesa e della celebrazione eucaristica. Accolti o esclusi? Su questa domanda si gioca l’identità della Chiesa e la sua missione.
Il brano del Vangelo domenicale, che si legge proprio in questi giorni del Sinodo, a mio parere ci può dare qualche spunto di riflessione come singoli cristiani e come comunità.
Gesù sta ancora una volta parlando ai capi religiosi del suo tempo, che progressivamente lo stanno rifiutando come Messia e sono sempre più lontani da quello che Gesù dice di se, del Padre e del Regno di Dio. Gesù con le sue parole smaschera l’ipocrisia di coloro che si consideravano credenti e fedeli a Dio, ma che in realtà sono nemici di Dio e avversari della sua volontà.
Gesù usa l’immagine bella e ricca del banchetto nuziale per rappresentare l’esperienza del Regno dei cieli, cioè l’esperienza del mondo che Dio ha in mente di realizzare in terra tra gli uomini (parla di Regno DEI cieli e non NEI cieli!).
A questo Regno sono invitati coloro che in realtà lo rifiutano perché hanno altri interessi, i propri dal punto di vista economico e di potere. Infatti, pur insistendo amorevolmente, il Re si sente rifiutato nel suo invito addirittura con la violenza (“altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero”… e ricorda ancora una volta i profeti non ascoltati e uccisi, tra i quali alla fine lo stesso Gesù…).
Ecco allora che il Regno di Dio viene ulteriormente aperto a tutti, rivelando così la sua vera dimensione: ogni uomo e donna in ogni angolo e periferia della terra e dell’esperienza umana.
Quei “crocicchi” di cui parla la parabola, ai quali sono inviati i servi dal Re, sono proprio gli estremi confini della terra, là dove si trovano gli uomini, cattivi e buoni (proprio come dice la stessa parabola).
La differenza tra chi è dentro o fuori dalla festa è unicamente data da chi accetta o da chi rifiuta l’invito alla festa che non vuole essere esclusiva ma estremamente inclusiva. La linea di demarcazione è una decisione del singolo di far parte o meno di questo Regno dei Cieli che è qui in terra.
Nostro compito come Chiesa dovrebbe, secondo me, essere più di inclusione che di esclusione, facendo il più possibile perché tutti si sentano parte della festa e accolgano l’invito del Signore a fare parte e operare nel suo Regno.
Se in passato, noi preti soprattutto, abbiamo operato con zelo ad elencare le caratteristiche di chi può e di chi non può far parte della Comunità dei fratelli e sorelle di Cristo, ora forse abbiamo un compito più difficile che è quello di aprire le porte e fare il più possibile perché chi si sente lontano ed escluso si senta invece invitato a far parte della Chiesa, sempre!
Credo sia questo il non facile compito che si sono dati i nostri Vescovi con il papa, cioè scacciare quell’idea, a volte purtroppo troppo radicata, che la Chiesa è per pochi santi ed eletti, ma che in realtà è per tutti, divorziati-risposati compresi. La Chiesa, come insegna questo Vangelo, nasce proprio dai crocicchi delle strade, dalle tante periferie del mondo.

Giovanni don

 

Apprezza ciò che sei

Il pane quotidiano

Signore ti voglio lodare benedire e ringraziare del pane che oggi mi hai concesso di impastare con te.

Gli ingredienti a disposizione erano diversi da quelli che avrei voluto per realizzare i miei progetti: stanchezza, dolore, preoccupazioni, impegni, contrattempi, limiti del corpo e dello spirito.

Grazie perché mi hai fornito il lievito per far fermentare la massa, ma anche la capacità di attendere che aumentasse di volume e cuocesse, sì che fosse commestibile e bastasse per tutti.

Grazie Signore di questo giorno in cui mi hai chiamato, nella tua bottega di fornaio, a fare il garzone perché il pane, con te, è garantito, qualunque siano gli ingredienti.

(A. Milella)

I veri amici

I veri amici non chiedono “come stai?”, “come va?”, gli amici veri donano se stessi e basta, senza pretendere niente, né essere mai invadenti; ci si rispetta nelle diversità, magari li vedi raramente perché sono lontani o perché ognuno vive la propria vita e se così non fosse non sarebbe amicizia ma dipendenza.Nell’amicizia non si chiedono né si fanno favori, i veri amici comprendono le situazioni, e se è giusto ed è necessario, diventano l’aiuto dell’altro.I veri amici rispettano gli spazi e la libertà, non vanno via né rimangono, semplicemente sono presenti oltre la distanza, oltre la vicinanza, oltre il tempo… è possibile non sentirsi e non vedersi perché essere amici significa essere gli uni per gli altri come acqua che innaffia un fiore per non farlo morire.

(Domenica Borghese)

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