Avvento, tempo di attesa e attenzione: Dio si fa più vicino

Se tu squarciassi i cieli e discendessi! Is 63,19. Il profeta apre l’Avvento come un maestro del desiderio e dell’attesa; Gesù riempie l’attesa di attenzione.Attesa e attenzione, i due nomi dell’Avvento, hanno al medesima radice: tendere a, rivolgere mente e cuore verso qualcosa, che manca e che si fa vicino e cresce. Sono le madri quelle che conoscono a fondo l’attesa, che la imparano nei nove mesi che il loro ventre lievita di vita nuova. Attendere è l’infinito del verbo amare.Avvento è un tempo di incamminati: tutto si fa più vicino, Dio a noi, noi agli altri, io a me stesso. In cui si abbreviano distanze: tra cielo e terra, tra uomo e uomo, e si avviano percorsi.Nel Vangelo di oggi il padrone se ne va e lascia tutto in mano ai suoi servi, a ciascuno il suo compito Marco 13,34. Una costante di molte parabole, dove Gesù racconta il volto di un Dio che mette il mondo nelle nostre mani, che affida le sue creature all’intelligenza fedele e alla tenerezza combattiva dell’uomo.Ma un doppio rischio preme su di noi. Il primo, dice Isaia, è quello del cuore duro: perché lasci indurire il nostro cuore lontano da te? Is 63,17. La durezza del cuore è la malattia che Gesù teme di più, la “sclerocardìa” che combatte nei farisei, che intende con tutto se stesso curare e guarire.Che san Massimo il Confessore converte così «chi ha il cuore dolce sarà perdonato».Il secondo rischio è vivere una vita addormentata: che non giunga l’atteso all’improvviso trovandovi addormentati Marco 13,36. Il Vangelo ci consegna una vocazione al risveglio, perché «senza risveglio, non si può sognare» R. Benigni.Rischio quotidiano è una vita dormiente, incapace di cogliere arrivi ed inizi, albe e sorgenti; di vedere l’esistenza come una madre in attesa, gravida di luce; una vita distratta e senza attenzione.Vivere attenti. Ma a che cosa? Attenti alle persone, alle loro parole, ai loro silenzi, alle domande mute, ad ogni offerta di tenerezza, alla bellezza del loro essere vite incinte di Dio.Attenti al mondo, nostro pianeta barbaro e magnifico, alle sue creature più piccole e indispensabili: l’acqua, l’aria, le piante.Attenti a ciò che accade nel cuore e nel piccolo spazio di realtà in cui mi muovo.Noi siamo argilla nelle tue mani. Tu sei colui che ci dà forma Isaia 64,7. Il profeta invita a percepire il calore, il vigore, la carezza delle mani di Dio che ogni giorno, in una creazione instancabile, ci plasma e ci dà forma; che non ci butta mai via, se il nostro vaso riesce male, ma ci rimette di nuovo sul tornio del vasaio. Con una fiducia che io tante volte ho tradito, che Lui ogni volta ha rilanciato in avanti.

(E. Ronchi)

Nella Chiesa nessuno è straniero

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In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.

Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.

Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.

Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.

E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna

(dal Vangelo di Matteo 25,31-46)

 

Una volta un bambino mi ha posto una domanda più o meno con queste parole: “Gesù dopo che è morto è andato in paradiso perché era tanto buono e aiutava tutti?”

La domanda è proprio da bambini, ma se ci pensiamo bene non è poi così banale perché mi costringe a pensare profondamente l’identità di Gesù, la sua vita e l’insegnamento che vien fuori dal suo agire.

La pagina che leggiamo questa domenica è il racconto dell’ultimo grande discorso di Gesù prima di entrare nel racconto della sua morte e resurrezione: è il riassunto e il senso profondo di tutta la sua esistenza, e dopo queste parole affronta il capitolo più intenso di tutta la sua vita.

Gesù parla di un giudizio finale e come sempre, mentre dà insegnamenti ai suoi discepoli, rivela molto anche di se stesso.

Chi è Gesù se non colui che ha fatto di tutto per mettersi dalla parte degli ultimi, dei più piccoli, dalla parte dell’affamato, dell’assetato, del povero, dello straniero e del malato? Gesù ha scelto di compromettersi totalmente con gli ultimi, anche a costo di essere frainteso e giudicato male persino dai suoi amici. Nella sua vita si scontra con le autorità religiose che più volte lo considerano un impuro e indegno perché sta con i peccatori e le prostitute, tocca e si fa toccare dai malati, e proviene dalla Galilea che è ai confini e lontana dal centro ortodosso della fede che è Gerusalemme. Il Maestro scandalizza anche i suoi discepoli quando mette al centro i bambini, come metro di misura su chi è veramente grande nel Regno di Dio.

Gesù è davvero l’Emmanuele, cioè il Dio-con-noi, dentro la realtà umana anche nelle sue pieghe più umili e limitate. Ogni volta che anche io mi immedesimo nel piccolo e povero, e ogni volta che mi prendo carico delle sue sofferenze, sono dalla parte di Gesù che ha fatto la stessa cosa, ed è addirittura dentro quel piccolo e povero.

Tra le varie opere di misericordia che la pagina del Vangelo elenca ce n’è una di estrema attualità ed è assai provocante per noi cristiani di oggi: “ero straniero e mi avete accolto”

 

La nostra Diocesi di Verona ha elaborato un documento che nel panorama delle Diocesi italiane rimane un po’ unico e davvero esemplare. Si tratta del lavoro che una equipe di preti e laici ha elaborato sulla questione del rapporto tra immigrati e comunità cristiane. Il titolo scelto è davvero riassuntivo e illuminante “Nella mia parrocchia nessuno è straniero”.

Nel lavoro fatto si sono evidenziati i percorsi possibili di una pastorale che veda gli stranieri, sempre più numerosi nel nostro contesto sociale, non solo come realtà da servire in modo distaccato e lontano, ma come persone da includere sempre più come parte della comunità cristiana stessa. Se davvero crediamo che nello straniero accolto, accogliamo Gesù (“ero straniero e mi avete accolto”) allora non possiamo certo trattare Gesù da estraneo, lui che è fondamento della nostra esperienza di fede e di comunità.

Sono tante le tensioni che attraversano la nostra nazione e le nostre realtà locali riguardo il rapporto con gli stranieri e il carico di problemi che si creano, mischiati alle problematiche della crisi economica che si fa sempre più profonda. La risposta del cristiano parte decisamente dal Vangelo che non può rimanere relegato sull’ambone in chiesa, ma deve tradursi in scelte e atteggiamenti condivisi da tutti.

Certo non è facile e non bastano due iniziative di carità per risolvere la questione. Bisogna prima di tutto ricordarci chi siamo e quale stile aveva Gesù Cristo, di cui portiamo il nome.

Lui, straniero per eccellenza, è si è fatto cittadino del mondo e chiamava fratelli tutti gli esseri umani.

Così la comunità cristiana sceglie di far sì che chiunque, italiano e non, comunitario o extra-comunitario, cristiano o non, non si senta mai straniero e non trovi mai confini e dogane umane a respingerlo.

Riprendendo la domanda che mi era stata posta dal bambino, posso proprio dire che Gesù davvero è andato in paradiso perché dal paradiso era sceso per mostrare la bontà di Dio e l’amore verso tutti.

Giovanni don

Non perdere la speranza

Non perdere la speranza perché forza di vita, non perdere i tuoi sogni e tienili stretti, difendili, perché sono la tua destinazione. Sorridi sempre anche nella difficoltà, perché ridere è la miglior medicina del mondo e non ha controindicazioni. E soprattutto ama: soffrirai, verrai tradito, ferito, fatto a pezzi, ma vivrai anche momenti e sensazioni indimenticabili. E un giorno sarà per sempre, lo so che arriverà, lo credo. Lo spero, lo sogno da una vita e non mollo, mai l’ho fatto e mai lo farò, perché sono vivo.

(S. Andreani)

Il ricco e il povero

Un giorno un uomo ricco consegnò un cesto di spazzatura ad un uomo povero. L’uomo povero gli sorrise e se ne andò col cesto, poi lo svuotò, lo lavò e lo riempì di fiori bellissimi. Ritornò dall’uomo ricco e glielo diede.
L’uomo ricco si stupì e gli disse:

«Perché mi hai donato fiori bellissimi se io ti ho dato la spazzatura?».
E l’uomo povero disse:
«Ogni persona dà ciò che ha nel cuore».

(anonimo)

LE ABITUDINI DELLE PERSONE INFELICI

LE 7 TIPICHE ABITUDINI DELLE PERSONE “INFELICI”!

1. Temono il giudizio degli altri (ma se ne dicono indipendenti).

2. Si complicano troppo la vita (ma credono che la vita sia complicata).

3. Associano la felicità alla perfezione (per questo la felicità rimarrà irraggiungibile).

4. Vivono in un mare di voci negative e sono tutti contro di loro (o almeno lo credono!).

5. Rimangono bloccati nel passato e si preoccupano del futuro (senza vivere il presente).

6. Confrontano la propria vita con quella degli altri (e loro sono sempre un po’ più…sfigati!).

7. Si concentrano sugli aspetti negativi della propria vita (perché? Ce ne sono di positivi?).

Meglio esserne consapevoli…non si sa mai!

via Don Massimo Cabua.

Seminatori di speranza

Ogni giorno tristi notizie
scuotono le strade del mondo.
Ogni persona che incontriamo
ha sempre da raccontarci una lacrima sofferta.
Siamo tutti con gli occhi rivolti verso un’alba serena,
che però tarda a spuntare.
A noi, tuoi figli, o Signore,
hai affidato il compito di seminare speranza
dove c’è disperazione,
poiché la tua grazia ha posto in noi
il seme fecondo che genera il mondo redento e salvato.
Aiutaci, Signore, ad essere ogni giorno
non diffusori di lacrimogeni,
ma banditori della Buona Novella che, nonostante tutto,
la storia sfocia in un giardino di salvezza,
perché è tenuta saldamente nella tue mani.

(M. G. Petruzzelli)

Una fede da paura

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In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.
Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».
(dal Vangelo di Matteo 25,14-30)

La paura è un sentimento che accomuna tutti gli esseri umani. La paura sembra qualcosa di negativo, ma in realtà ha profondi aspetti positivi per la sopravvivenza. Se non avessimo incisa nel profondo del nostro istinto la paura della morte non avremmo quelle reazioni automatiche, sia fisiche che psicologiche, che ci portano ad autopreservarci difronte ad un pericolo. La paura quindi è normale e “buona” se non arriva però a paralizzarci e a chiuderci in noi stessi anche in situazioni più normali e positive. Allora diventa fobia e panico.
Nella parabola del vangelo, è la paura-fobia del padrone che porta il terzo servo a nascondere sottoterra l’enorme fortuna che ha ricevuto con quel talento. Un talento, nella misurazione ai tempi di Gesù, equivaleva a più di 30 kg d’oro. I tre servi ricevono tutti, anche se in misure diverse, una fortuna immensa, segno di una grandissima fiducia e generosità da parte del padrone.
Facendo bene attenzione al racconto di Gesù, non viene c’è accenno di alcuna minaccia di punizione se i beni consegnati non verranno fatti fruttare e non viene nemmeno detto che quei talenti devono essere riconsegnati alla fine. Semplicemente il padrone consegna i talenti, parte per il suo viaggio e poi ritorna per vedere cosa ne è stato di quel che con fiducia ha dato. I primi due servi mostrano quel che è stato guadagnato ed entrano nella gioia del padrone, segno di una ulteriore vicinanza e sintonia con questo padrone. Il terzo invece è bloccato fin da subito dalla paura di una punizione che non era minacciata, ma era solo nella sua testa fin da subito. La paura in questo caso diventa fobia, inculcata nella sua mente chissà come e da chi. Certo è che la sua azione è quella di dimenticare persino la fortuna che ha tra le mani e che gli altri hanno saputo invece vivere e persino far fruttare.
La punizione finale (gettato fuori e separato dal padrone e dai suoi beni che aveva tra le mani) non è altro che la conseguenza di quello che lui da solo ha coltivato nella mente e nelle scelte quotidiane.
Mi domando se anche io ho questa visione di Dio, e se in questo modo imposto la mia relazione con lui e con quello che lui mi ha dato in questa vita. Vivo secondo la paura-fobia di Dio, della sua punizione, o considero Dio come il padrone della parabola che ha una immensa fiducia in me e crede che io posso far fruttare quel che lui mi ha dato?
In questi giorni ho avuto modo di dialogare più volte con un anziano che ogni tanto mi chiede consiglio spirituale. Ultimamente è davvero assillato dalla paura di non essere perdonato dai suoi peccati. Per sua sfortuna ha trovato recentemente un frate in confessionale che lo ha duramente ripreso per quel che gli aveva confessato, aggiungendo che se non si confessava più spesso non avrebbe potuto fare la Comunione senza cadere nel sacrilegio.
Ovviamente questo anziano, educato ad una religiosità della paura (così mi viene da chiamarla) si trova a dare più peso alle parole del frate “castigatore” che alle mie, ed è davvero terrorizzato di non essersi mai confessato bene commettendo più volte sacrilegio prendendo la Comunione durante la Messa.
Mi domando se davvero la parabola dei talenti non sia un invito ad avere paura della paura. Se da una parte la paura è un meccanismo psicologico che ci aiuta nell’istinto a preservarci dai pericoli fisici, quando entra a livello spirituale allora si trasforma in fobia e distorce l’immagine corretta di Dio come Padre buono. E mi dispiace che purtroppo è nel nostro ambiente religioso che questa “paura di Dio” è stata molto coltivata nell’educare alla fede.
Meno male che nel racconto il rapporto tra quelli che hanno fiducia in se stessi e affrontano il padrone in modo positivo con quel che lui ha dato loro, e invece quelli che hanno paura e temono il padrone, è di due a uno. Prevale quindi la fiducia in Dio e il senso della sua paternità su un’idea distorta di un padrone che punisce e la conseguente paura di lui.
Anche se la parabola è più dettagliata nel raccontare le paure del terzo servo, rimangono come segno di speranza gli altri due servi che fiduciosi vivono responsabilmente il bene ricevuto e alla fine sono premiati con il dono più grande che è far parte “della gioia del loro padrone”.

Giovanni don

 

In cammino coi Santi

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In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
(dal Vangelo di Matteo 5,1-12)

Clotilde e Gaetan sono due giovani che qualche giorno fa si sono fermati a cercare un riparo per la notte in parrocchia. Si sono sposati a fine agosto nel loro paese nella Francia centrale, e il giorno dopo il loro matrimonio si sono messi in viaggio a piedi verso Gerusalemme, trainando un carretto arancione con le loro poche cose. Hanno deciso così di iniziare il loro cammino di vita matrimoniale, con questo lungo pellegrinaggio che li poterà ad affrontare non poche difficoltà molto concrete per arrivare alla meta.
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Questi due giovani sono stati con noi qualche ora, giusto il tempo per pregare insieme, mangiare qualcosa e passare la notte, poi al mattino sono ripartiti, lasciandoci come regalo in parrocchia la loro testimonianza di piccola comunità di fede e amore “in cammino”. Il loro sorriso e la totale disponibilità e fiducia nei nostri confronti, hanno stimolato anche il mio sorriso e la mia disponibilità e fiducia. Vederli ripartire lentamente con il loro carrettino arancione mi ha fatto ritrovare un pizzico di fiducia nella vita e anche nelle mie possibilità di fare anch’io i miei passi di vita, superando la tentazione di bloccarmi perché penso di non farcela.
I Santi che la Chiesa oggi ricorda tutti insieme sono in fondo come Clotilde e Gaetan. Sono li per noi per ricordarci che la strada della vita di fede anche se dura non è impossibile da percorrere. Ognuno di loro ha fatto il proprio percorso in un luogo e tempo preciso della storia umana. Hanno avuto anche loro momenti di salita e di affaticamento, ma alla fine sono arrivati alla meta, che è la Gerusalemme del cielo. Ricordare un santo o una santa, andando a conoscerne la storia e quello che hanno detto e fatto, ci aiuta a fare il nostro cammino che è solamente in un epoca e luogo diversi dal loro, ma non per questo impossibile oggi per noi.
Le Beatitudini sono quella stupenda pagina del Vangelo che ci aiuta a contemplare nella nostra vita l’azione di Dio, che di fa suoi figli, ci consola, ci sazia della sua Parola, ci perdona… La beatitudine viene come dono di Dio possibile per tutti, basta mettersi in cammino e non cedere alla tentazione di pensare che solo pochi possono fare la strada di Dio.
Clotilde e Gaetan fanno questo cammino insieme, sperimentando cosa vuol dire realmente aiutarsi, sostenersi, portare i pesi l’uno dell’altro, allungare o rallentare il passo per non perdersi, e alla fine gioire insieme per la meta raggiunta. Questa è la Chiesa che Gesù vuole, fatta di Santi che sono in cielo e che hanno fatto già il loro pezzo di cammino e fatta di noi qui che siamo per strada, non da soli, ma insieme gli uni accanto agli altri

Giovanni don