Ringraziamento di fine anno

Eccoci, Signore, davanti a te.
Col fiato grosso, dopo aver tanto camminato.

Ma se ci sentiamo sfiniti,
non è perché abbiamo percorso un lungo tragitto,
o abbiamo coperto chi sa quali interminabili rettilinei.

È perché, purtroppo, molti passi,
li abbiamo consumati sulle viottole nostre, e non sulle tue:
seguendo i tracciati involuti della nostra caparbietà faccendiera,
e non le indicazioni della tua Parola;
confidando sulla riuscita delle nostre estenuanti manovre,
e non sui moduli semplici dell’abbandono fiducioso in te.

Forse mai, come in questo crepuscolo dell’anno,
sentiamo nostre le parole di Pietro:
“Abbiamo faticato tutta la notte,
e non abbiamo preso nulla”.

Ad ogni modo, vogliamo ringraziarti ugualmente.
Perché, facendoci contemplare la povertà del raccolto,
ci aiuti a capire che senza di te,
non possiamo far nulla. Ci agitiamo soltanto.

Ma ci sono altri motivi, Signore, che, al termine dell’anno,
esigono il nostro rendimento di grazie.

Ti ringraziamo, Signore,
perché ci conservi nel tuo amore.
Perché continui ad avere fiducia in noi.

Grazie, perché non solo ci sopporti,
ma ci dai ad intendere che non sai fare a meno di noi.

Grazie, Signore, perché non finisci di scommettere su di noi.
Perché non ci avvilisci per le nostre inettitudini.

Anzi, ci metti nell’anima un cosi vivo desiderio di ricupero,
che già vediamo il nuovo anno
come spazio della speranza e tempo propizio
per sanare i nostri dissesti.

Spogliaci, Signore, di ogni ombra di arroganza.
Rivestici dei panni della misericordia e della dolcezza.
Donaci un futuro gravido di grazia e di luce
e di incontenibile amore per la vita.

Aiutaci a spendere per te
tutto quello che abbiamo e che siamo.
E la Vergine tua Madre ci intenerisca il cuore.
Fino alle lacrime.

(D. Tonino Bello)

La famiglia, prima scuola di santità

La santa Famiglia di Na­zaret porta un messag­gio a tutte le nostre fa­miglie, l’annuncio che è pos­sibile una santità non solo individuale, ma una bontà, una santità collettiva, fami­liare, condivisa, un contagio di santità dentro le relazioni umane. Santità non signifi­ca essere perfetti; neanche le relazioni tra Maria Giuseppe e Gesù lo erano. C’è angoscia causata dal figlio adolescen­te, e malintesi, incompren­sione esplicita: ma essi non compresero le sue parole.

Santità non significa assen­za di difetti, ma pensare i pensieri di Dio e tradurli, con fatica e gioia, in gesti. Ora in cima ai pensieri di Dio c’è l’a­more. In quella casa dove c’è amore, lì c’è Dio.

E non parlo di amore spiri­tuale, ma dell’amore vivo e potente, incarnato e quoti­diano, visibile e segreto. Che sta in una carezza, in un ci­bo preparato con cura, in un soprannome affettuoso, nel­la parola scherzosa che scio­glie le tensioni, nella pa­zienza di ascoltare, nel desi­derio di abbracciarsi. Non ci sono due amori: l’amore di Dio e l’amore umano. C’è un unico grande progetto, un solo amore che muove Ada­mo verso Eva, me verso l’a­mico, il genitore verso il fi­glio, Dio verso l’umanità, a Betlemme.

Scese con loro a Nazaret e sta­va loro sottomesso. Gesù la­scia i maestri della Legge e va con Giuseppe e Maria che sono maestri di vita. Per an­ni impara l’arte di essere uo­mo guardando i suoi genito­ri vivere: lei teneramente forte, mai passiva; lui padre non autoritario, che sa an­che tirarsi indietro. Come poteva altrimenti trattare le donne con quel suo modo sovranamente libero? E inaugurare relazioni nuove tra uomo e donna, paritarie e senza paure?

Le beatitudini Gesù le ha vi­ste, vissute, imparate da loro: erano poveri, giusti, puri nel cuore, miti, costruttori di pa­ce, con viscere di misericor­dia per tutti. E il loro parlare era: sì, sì; no, no. Stava così bene con loro, che con Dio adotta il linguaggio di casa, e lo chiama: abbà, papà. Che vuole estendere quelle rela­zioni a livello di massa e dirà: voi siete tutti fratelli.

Anche oggi tante famiglie, in silenzio, lontano dai rifletto­ri, con grande fatica, tesso­no tenaci legami d’amore, di buon vicinato, d’aiuto e col­laborazione, straordinarie nelle piccole cose, come a Nazaret. Sante. La famiglia è il luogo dove si impara il no­me di Dio, e il suo nome più bello è: amore, padre e ma­dre.

La famiglia è il primo luogo dove si assapora l’a­more e, quindi, si gusta il sa­pore di Dio. La casa è il luo­go dove risiede il primo ma­gistero, più importante an­cora di quello della Chiesa. È dalla porta di casa che esco­no i santi, quelli che sapran­no dare e ricevere amore e che, per questo, sapranno es­sere felici.

(p. Ermes Ronchi)

Lettera da Taizé

Si ha l’impressione di essere piccole formiche, 
di fronte alla grande quercia da abbattere. 
Non mi dispero di fronte a tutto ciò. 
So bene di non essere solo, 
di non essere l’unico. 
Ormai la maggioranza 
sa come è sfruttata. 
Ma manca una cosa. 
La speranza. 
E oggi non può più essere 
un credere che qualcosa cambierà. 
Oggi la speranza deve essere 
la certezza che domani cambierà, 
che il mondo sarà costruito e diretto dai poveri.

(C. di Taizé)

Il tempo è uno stupendo regalo

Il tempo è uno stupendo regalo che Dio ci fa. Egli ne domanderà il conto esatto. Ma non temere, Dio non è un cattivo padrone. Non ci dà nessun lavoro senza offrirci i mezzi per compierlo. Si ha sempre il tempo di fare ciò che Dio ci dà da fare.

Quando ti manca il tempo per eseguire tutto, fermati qualche istante e prega. Poi stabilisci l’impiego della tua giornata sotto lo sguardo di Dio. Tralascia ciò che lealmente sai di non poter portare a termine, anche se gli uomini vi insistono e non comprendono, perché Dio non te lo dà da fare. Tu non hai, quindi, mai troppo lavoro da compiere.

Quando hai scoperto ciò che Dio desidera vederti fare, allora lascia tutto e dedicati interamente a questo compito, Dio ti aspetta là, in quel momento, in quel posto e in nessun altro luogo.

(M. Quoist)

Io desidero Te

Io desidero te, soltanto te,
il mio cuore lo ripete senza fine.
Sono falsi e vuoti i desideri
che continuamente mi distolgono da te.

Come la notte nell’oscurità
cela il desiderio della luce,
così nella profondità della mia incoscienza
risuona questo grido:
io desidero te, soltanto te.

Come la tempesta cerca fine nella pace,
anche se lotta contro la pace
con tutta la sua furia,
così la mia ribellione
lotta contro il tuo amore,
eppure grida:
io desidero te, soltanto te.

(R. Tagore)

a Natale Gesù muore…

Natale 2012 (colored)

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.
Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta.
Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».
(dal Vangelo di Luca 2,1-14)

La mia preparazione al Natale quest’anno è stata quanto mai imprevista in tutto quello che mi è accaduto.
10 giorni fa un carissimo amico sacerdote, don Fabiano, è morto improvvisamente, lasciando un vuoto incolmabile non solo nella sua famiglia e nella sua comunità (specialmente nei giovani che lo amavano), ma anche in me. I giorni successivi, tra veglie di preghiere, visite alla famiglia, colloqui con i tanti giovani e adulti colpiti e infine anche il funerale, sono stati davvero intensi e molto difficili. Tutto quel che mi accadeva sembrava portarmi lontano anni luce dal Natale, sia nel clima di festa che non c’è più nel cuore, sia nei contenuti. Il Natale celebra la nascita di Gesù con tutta la gioia di un bambino che viene al mondo. Io invece mi sono trovato faccia a faccia con la morte e il lutto.
Natale rovinato?
Due avvenimenti mi hanno fatto ripensare il tutto, e mi hanno dato una chiave di lettura nuova che forse non solo salva il Natale, ma mi porta a viverlo in modo più vero e spiritualmente fecondo.
Il primo avvenimento è stata l’omelia che il parroco del mio amico defunto ha pronunciato alla messa del settimo (messa che si celebra dopo 7 giorni dalla morte). Davanti all’assemblea che riempiva ancora una volta tutta la chiesa ha avuto il coraggio di parlare di vita e di nascita. Per i cristiani la morte è la nascita al cielo. Da sempre i credenti in Cristo vedono la morte come il passaggio alla vita eterna e non la fine di tutto. Questo mio carissimo amico non è morto ma è rinato al cielo, e la vive in Dio in attesa che anche tutti noi facciamo questo passaggio “rinascendo” in cielo. La morte fisica ha solo modificato il modo di stare con lui, ma non ha spezzato il legame di affetto.
Queste parole, il parroco don Giorgio, le ha pronunciate, non con la freddezza di chi deve dire qualcosa per contratto di lavoro, ma con il calore di chi ci credere e di chi vuole che in questa fede trovi pace nel dolore.
Il secondo avvenimento è di questa mattina, la vigilia di Natale. Abbiamo celebrato in chiesa un altro funerale, quello di una catechista molto conosciuta e amata da tutta la comunità. La nostra chiesa era davvero strapiena. Un suo parente alla fine della messa mi avvicina e mi dice: “Hai visto? La Chiesa era piena che sembra la messa della notte di Natale”. Ha ragione!
Stamattina abbiamo celebrato una morte e questa sera celebreremo una nascita… Oppure è il contrario, o la stessa cosa? Se la morte per il cristiano è la nascita al cielo, allora quel funerale, come quello di don Fabiano sono state due celebrazioni di nascite, di una nuova vita. E quando celebriamo la nascita di Gesù, in fondo celebriamo la sua morte, perché dal momento che viene nel mondo, inizia un percorso segnato fin dall’inizio dalla sua fine in croce. Non a caso in molte icone che rappresentano la scena della nascita di Gesù, il bambino viene dipinto avvolto in fasce come fosse un morto, e la mangiatoia appare sempre più come una tomba aperta.
Ecco dunque il Natale cristiano. E’ Dio che muore nel mondo per farci comprendere che la nostra vita è aperta alla vita eterna. La scelta di nascere come essere umano limitato e mortale, rende Dio davvero solidale con tutti noi che facciamo spesso improvvisamente i conti con la morte e il nostro limite.
Davanti al presepe, guardando il bambin Gesù, penso a tutti coloro che sono morti fisicamente, ma che nello spirito sono nati al cielo, che nell’abbraccio di Dio aspettano anche me e tutti noi.
Davanti alla scena del Natale voglio ritrovare pace dalle mie tristezze, e invoco pace anche per le tristezze di chi sta vivendo quest’anno come me un Natale così difficile.
Non mi trovo dunque più a disagio se penso a Gesù che nasce. Forse il clima zuccheroso e a tratti un po’ superficiale con il quale ho vissuto in passato altri Natali meno problematici, lascia il posto quest’anno ad un Natale dove la fede è più profonda perché messa alla prova.
Gesù muore nascendo… e noi morendo, nasciamo in Dio.

Giovanni don
12-nativita

Giro a tutti questo pensiero e augurio di un amico che trovo davvero profondo ed evangelico:

“Quest’anno ho avuto la fortuna di conoscere persone speciali. Per me la persona è speciale quando si mette al tuo pari, quando accetta tutto di te, così facendo ti disarma e ti lascia libero di dire e fare ciò che si vuole! Dio ha scelto di abbandonare la sua regalità per mettersi alla pari con me, come posso rimanere indifferente ad un gesto d’amore senza precedenti? BUON NATALE A TUTTI!”

Il significato dell’Avvento

Avvento è essere convinti 
che il Signore viene ogni giorno, 
ogni momento nel qui 
e nell’ora della storia, 
viene come ospite velato. 

E, qui, saperlo riconoscere: 
nei poveri, negli umili, nei sofferenti. 

Avvento significa in definitiva: 
allargare lo spessore della carità! 
Tanti auguri scomodi, allora!

(D. Tonino Bello)

La Chiesa nella casa di Elisabetta

fine del mondo e Dio (colored)

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
(dal Vangelo di Luca 1,39-45)

Un amico qualche giorno fa si è un po’ sfogato con me e mi ha detto: “A Natale non ci vado a Messa!… non mi riconosco nella Chiesa e posso vivere il mio rapporto con Dio anche fuori”.
Da quel che mi ha spiegato la sua è una vera e propria protesta perché non si sente d’accordo con quel che viene detto specialmente dai suoi vertici, ma anche dai suoi rappresentanti locali, in parrocchia.
La prima cosa che mi è venuta da dirgli non è stato certo un “no, non devi!”, ma un sincero “mi dispiace…”, e poi abbiamo parlato un po’ di questo suo disagio. Penso che in questa condivisione libera e sincera di esperienze abbiamo fatto comunque una bella esperienza di comunità.
Non so se andrà a messa, non solo a Natale ma anche le altre domeniche, e se dunque porterà a compimento il suo desiderio di uscita, certo è che la cosa mi ha fatto pensare alla luce della scena descritta da Luca nel suo Vangelo.
Non siamo certo dentro la storia della prima comunità cristiana, anche perché Gesù deve ancora nascere, morire e risorgere, e manca ancora l’effusione dello Spirito Santo sugli apostoli nel cenacolo.
Eppure la prima comunità cristiana che sente questo racconto della visitazione può specchiarsi e vedere la propria esperienza.
Due donne raggiunte in modo speciale e unico da Dio, si ritrovano insieme nella normalità della loro vita. Non sono nel Tempio, ma in casa, e fanno quello che è normale per due parenti che si ritrovano a farsi visita: il saluto, l’accoglienza in casa e il dialogo.
Da lontano un passante distratto non vedrebbe nulla di insolito che possa attirare la sua attenzione e stupirlo. Ma l’evangelista Luca ci fa avvicinare e ci fa ascoltare il dialogo tra Maria ed Elisabetta.
Si stanno reciprocamente comunicando l’esperienza di Dio. Elisabetta con le sue parole piene di entusiasmo e con un moto di slancio che l’evangelista pennella benissimo con il suo scritto, da’ a Maria un secondo annuncio di quel che le sta accadendo. Se l’esperienza dell’Annunciazione dell’angelo è stato un momento personalissimo e privato di Maria, ora qui diventa esperienza e conferma comunitaria. Elisabetta conferma quel che Gabriele ha detto alla giovane di Nazareth: lei sarà madre del Signore ed Elisabetta ha ricevuto il dono della maternità anche se tutti la dicevano sterile. Davvero nulla è impossibile a Dio!

Il brano riportato oggi dalla liturgia non riporta le parole di Maria immediatamente successive, che sono il cantico del Magnificat, ma possiamo vedere nella preghiera di Maria ricolta a Dio una risposta per Elisabetta. Maria ed Elisabetta si sintonizzano in breve tempo su Dio che per entrambe ha avuto uno sguardo speciale. Queste due donne insieme in quella normalissima casa, nella regione montuosa fuori di Gerusalemme, fanno esperienza di comunità vera.
La conferma più evidente che stanno facendo esperienza di Dio è proprio la gioia profonda che pervade la scena e nasce da dentro le due protagoniste. Elisabetta sente addirittura il bambino nel grembo che sussulta di gioia al solo suono della voce di Maria. Questa gioia profonda nasce e rimane in quella piccola casa tra quelle due donne che saranno chiamate a sfide e sofferenze non piccole nel loro futuro e nel futuro dei loro figli.
Ecco quindi la Chiesa: una comunità che si ritrova nella normalità della vita. I primi cristiani, specialmente fuori dal mondo ebraico, si radunavano infatti nelle case e non nei sontuosi e solitari templi pagani. L’esperienza della fede è rafforzata e confermata dalla condivisione, con il proposito di non giudicarsi mai, ma nel “gareggiare nella stima reciproca” (come dice San Paolo). La comunità ha il compito di confermare l’esperienza personale di fede. Senza comunità c’è il rischio forte di disperdere e di non trovare il senso di quello che Dio in modo misterioso comunica. La fede non si può che vivere nella comunità, e questa non deve schiacciare e limitare il singolo, ma aiutarlo ad armonizzarsi con gli altri, rimanendo se stesso e mai “incasellato” come fosse una truppa di militari.
La gioia profonda è la conferma che la comunità funziona e sostiene i singoli che la compongono. Una gioia che qualche volta sale in superfice ed è fatta di canto, festa e allegria, ma che anche nel dolore e nelle difficoltà rimane nel profondo come senso di appartenenza a Dio e senso della sua presenza in ogni situazione. Una comunità che non comunica questa gioia è una comunità che si sfalda e addirittura porta lontano da Dio.
Questo mio amico, come tanti altri che conosco, sentono la Chiesa non più come una comunità dove sentirsi accolti nella loro esperienza di fede, e invece del clima di gioia sentono un clima di giudizio. In altre parole sentono che la Chiesa non ha il clima della casa di Elisabetta. A me dispiace questo, perché personalmente sento che la mia esperienza di Chiesa è invece proprio quella descritta da Luca. Sento anzi che il mio compito (che è in fondo di ogni cristiano) è di collaborare perché la comunità dei credenti costruisca una comunità così, dove la porta è sempre aperta senza paure ed esclusivismi, e dove lo stare insieme promuove la fede di ciascuno nella gioia.

Giovanni don

Ogni minuto, un attimo di eternità

Ogni minuto è il riassunto di tutta la storia: quella universale – che scriviamo tutti, senza rendercene quasi conto – e quella personale, che costruiamo giorno dopo giorno, senza mai sapere quando finirà. Ogni momento può essere il tocco finale di una meravigliosa avventura o la conclusione deludente di un progetto incompiuto.

Il tempo, il cui mistero è più profondo di quello dello spazio, ci è stato dato da Dio come dono e, insieme, come vocazione: quella di usarlo, davanti a Lui e agli altri, per fare del mondo un luogo sempre più degno del suo Creatore e delle creature alle quali Egli lo ha affidato. Il tempo ci è stato dato per moltiplicare le luci che fughino le tenebre; per fare di più e sempre meglio; perché ci siano più case e meno catapecchie; meno analfabeti e più libri; più pace e meno guerre; più libertà e meno schiavitù; più gioia e meno sofferenze; più salute e meno malattie. E, soprattutto, perché “Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,28): prima nella nostra coscienza, poi nella nostra vita e, infine, nella grande storia dell’umanità.

Il tempo, per il suo carattere inesorabile e fuggente, esige che vigiliamo. Se non del tutto svegli, dobbiamo almeno essere pronti ad aprire gli occhi ed a metterci in cammino al primo segno del passaggio di Dio e delle sue esigenze.

(J. Mullor)

Il meglio di sé

Se non puoi esser pino in cima alla collina,
sii pruno nella valle – ma sii sempre
il più bel cespuglietto accanto al ruscello;
se non puoi esser albero, sii cespuglio.

Se non puoi esser cespuglio, sii dell’erba
E abbellisci come puoi la strada maestra;
se non puoi esser muschio, sii alga,
ma l’alga più preziosa del laghetto.

Se siam tutti comandanti, la ciurma chi la fa?
C’è qualcosa da fare per tutti.
Ci sono lavori grossi e altri meno
E ciascuno deve scegliersi il più adatto.

Se non puoi esser strada, sii sentiero,
se non puoi esser sole, sii una stella;
vincere o perdere non dipende dalla grandezza.
Ma bisogna essere al meglio quello che si è.

(D. Malloch)