Battesimo come nuova epifania

Eccoci ad una nuova epifania di Dio: al battesimo di Gesù nelle acque del Giordano, intervengono due ospiti d’eccezione, niente meno che il Padreterno e lo Spirito Santo. Il giorno del Battesimo è un giorno importante per la vita di un uomo, è il giorno più importante; è cosa buona e giusta, che in un giorno così siano presenti le persone più care, quelle più importanti per la vita del neofita…

Il Padre di Gesù non poteva mancare, con il suo Amore straordinario, talmente straordinario da assumete i connotati di una Persona… appunto, lo Spirito Santo.

La versione riportata dall’evangelista Marco è concorde a quella di Luca, ma diversa rispetto a quelle di Matteo e Giovanni: mentre, nelle prime due, la voce dal Cielo parla direttamente e soltanto a Gesù, Matteo e Giovanni raccontano che il Padre parla a coloro che assistono al fatto; la teofania è dunque perfetta in Matteo e Giovanni, mentre Marco e Luca preferiscono sottolineare l’unione delle tre Persone che dialogano, per così dire, nel cerchio della Trinità, nell’intimità e nel segreto della loro relazione d’amore. Sappiamo tuttavia che questa relazione intima e segreta è una relazione feconda, la quale produce niente meno che la vita del mondo e di tutto ciò che esiste, così come canta Giovanni nel prologo del suo Vangelo.

Ma torniamo sulle rive del Giordano: Gesù partecipa fisicamente all’evento, ma la sua presenza è del tutto silenziosa, passiva: Gesù lascia fare; il Padre parla, lo Spirito Santo spingerà subito dopo il Figlio di Dio nel deserto, ove dovrà misurarsi con il grande seduttore, il mentitore per eccellenza, satana. Tuttavia anche Gesù ci dà una lezione fondamentale, nonostante l’inerzia apparente: il Signore ci insegna a lasciar fare. Proprio Lui che è figlio di Dio, Dio in persona, dice al Battista e anche a noi: “Lascia fare, per ora! deve compiersi ogni giustizia.” (cfr. Mt 3,15).

Il senso e il fine del battesimo è quello di ricevere ufficialmente il mandato (di Dio) ad annunciare il Vangelo, con le parole, ma soprattutto con la testimonianza di fede vissuta fino in fondo, anche a costo della vita. A questo limite estremo del sangue si fa allusione, neanche troppo implicita, proprio nel racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto: Marco riduce la vicenda all’osso: “Subito dopo lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e vi rimase quaranta giorni, tentato da satana; stava con le fiere e gli angeli lo servivano.”. Matteo, invece, si dilunga, riportando un articolato dialogo tra il Figlio di Dio e il tentatore, e Luca conclude dicendo che allora il diavolo si allontanò per ritornare al tempo fissato. Sappiamo che il tempo fissato è l’ora della Passione.

Senza voler demonizzare le realtà terrene, è piuttosto la constatazione realistica della fatica di perseverare nella fede, a motivo di tutto ciò che rema contro la fede: fatti, parole, persone,…

Io non sono tra quelli che vedono il diavolo dappertutto… personalmente del diavolo non parlo mai, non perché non ci creda, ma perché la vita è talmente breve e il tempo corre talmente veloce, che ritengo sia più intelligente spenderlo parlando di Dio e di Gesù Cristo. E poi, parlando del diavolo, gli facciamo reclame… e ogni reclame, positiva o negativa, alimenta la curiosità, suscita interesse, attira l’attenzione… Un po’ come la cronaca nera che appare sui quotidiani: un giornale che non riporti almeno una brutta notizia in prima pagina, con tanto di foto raccapriccianti, non vende…

La cronaca bianca, invece, lo sappiamo tutti, non fa scena e se non fa scena, non interessa, non è eccitante, è addirittura noiosa! E così, basta che meno del 2% dei preti si macchi di crimini infami, e tutti i predi diventano persone delle quali è meglio non fidarsi troppo… Dell’altro 98% si tace.

Lo stesso accade quando si parla e si scrive sulla famiglia, sull’onestà professionale degli impiegati statali, sulla serietà e competenza dei medici, sul valore educativo della scuola italiana, sulla forza edificante della nonviolenza…

Non ho ancora detto che con la solennità del battesimo del Signore, termina il tempo di Natale.

Da domani riprende il Tempo Ordinario. Analogamente accade a Gesù, tornato al suo paese, dopo il battesimo e la prova delle tentazioni: comincia, o meglio, riprende la vita quotidiana: l’Uomo delle Beatitudini comincia a parlare, insegna nelle piazze, ai crocicchi delle strade, predica nelle sinagoghe, opera guarigioni, familiarizza con pubblicani e prostitute… Finché qualcuno si accorge di lui. O forse è il contrario: è lui che si accorge di qualcuno e lo chiama a seguirlo… L’ideale della vita comune covava nel cuore di Gesù fin dall’inizio della sua vita pubblica: il disegno concepito all’interno della Trinità di chiamare l’uomo, tutti gli uomini a partecipare, a condividere lo stesso rapporto di amore fecondo che lega tra loro le tre Persone divine.

Questo progetto diventa la Chiesa e la Chiesa si diffonde…una vera maledizione, una vera pandemia, per qualcuno – dai Romani in giù -… Per noi che, invece, dopo venti secoli, crediamo ancora nel Vangelo, la Chiesa rappresenta e manifesta la Gloria di Dio incarnata nell’uomo vivente!

Questa è la dignità della Chiesa, questa è anche la dignità di ogni cristiano (che appartiene alla Chiesa). Consapevoli dunque di questa dignità, e chiamati a manifestare anche noi la presenza di Dio nel mondo, ritorniamo dunque alla vita consueta!

Forse avrei dovuto dirlo prima di Natale, ma anche ora non è troppo tardi: le solennità che abbiamo celebrato rappresentano una full immersion, un tempo forte, come lo chiama la liturgia, per abbeverarci, per saziarci dei misteri di Cristo, esattamente come il tempo di Pasqua; ora non ci resta che portare al mondo la grazia che abbiamo attinto in questi misteri.

Citando Raoul Follerau, “Cristo non ha mani, Cristo non ha piedi, Cristo non ha voce… ha soltanto le nostre mani, i nostri piedi, le nostre voci…”.

Fr. Massimo Rossi

Il pinone

C’era un grosso pino che dominava la parte più alta di Villa Borghese. Aveva un fusto talmente grande che occorrevano  quattro uomini per abbracciarlo.

Era ammirato non solo per l’ombra che offriva ma soprattutto per la maestà dei suoi rami con cui dominava su tutte le piante vicine. Lo chiamavano il “pinone”…

Una mattina sono passato di là e un crocchio di persone ferme commentava la sua caduta. La colpa veniva data al vento che quella notte aveva soffiato furiosamente.. ma rimaneva sempre la domanda: Come può un pino così grosso e robusto essere abbattuto.. Quale vento? Quale fulmine?

Arrivano gli operai della villa e sentono i vari commenti. Uno, più esperto degli altri, mette subito le cose a posto dicendo che il vento, il fulmine e altre cause non c’entrano…

Purtroppo questo pino era guardato, ammirato per il suo bel tronco, curato nei suoi rami, ma attorno erano stati fatti dei lavori che avevano a lungo disturbato e mortificato lo sviluppo delle radici.. per di più era stato reciso il “fittone”, la radice portante che, sviluppandosi in profondità, serve a reggere e proteggere il pino da qualsiasi incursione del vento. Ne era stata minata la base.
La colpa non era quindi del vento, ma di coloro che non avevano curato la radice… Tutti volevano che la pianta crescesse, ma nessuno si occupava della sua radice.. Il pinone appariva, ma non era…

Non ti curar delle foglie se non dopo aver garantito, all’albero della tua vita, la profondità e la robustezza della radice.

(p. Andrea Panont)

rosso

Un Presepe senza confini

magi cardinali 2015 (colored)

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
(dal Vangelo di Matteo 2,1-12)

La tradizione del presepe a casa mia c’è sempre stata. Quando mancava una decina di giorni a Natale si iniziavano a sistemare le semplici scenografie con la capanna, le casette, il ponticello e l’immancabile palazzo di Erode a Gerusalemme, aggiungendo poi il fondale e tutte le statuine. Ma non proprio tutte. Infatti la notte di Natale si aggiungeva Gesù bambino e in seguito quelle dei tre re magi.
Sono sempre stare queste ultime statuine le mie preferite, perché aggiungevano alla scena preparata qualcosa di movimentato e per me molto affascinante!
Infatti una volta sistemate le statuine e tutto il resto, nulla più veniva mosso e il presepe aveva un aspetto ovviamente molto statico, se non fosse per i giochi luminosi delle piccole luci decorative. L’unico movimento era proprio quello dei magi, che in maniera molto giocosa collocavamo fin dall’inizio, ma non nello spazio del presepe, ma fuori, con un movimento di avvicinamento progressivo e imprevedibile. Capitava di sistemarli su una porta in alto, oppure di trovarli più vicini ma in basso sul pavimento, oppure su un mobile, nascosti da un vaso. Ognuno di noi si divertiva a spostarli avvicinandoli pian piano alla scena, ma sempre fuori fino al 6 gennaio, quando sarebbero entrati e avrebbero avuto il posto più vicino a Gesù rispetto tutti gli altri personaggi.
L’evangelista Matteo ci racconta proprio così la nascita di Gesù. L’evangelista Luca ci presenta i pastori tra i primi ad accorrere dal bambino, avvertiti da un angelo, per poi ripartire a portare a tutti l’annuncio. Matteo sembra davvero “osare” di più, richiamando attorno alla Sacra Famiglia questi misteriosi personaggi che vengono da lontano e guidati da una stella e da un misterioso invito («Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo»)
Questi osservatori di stelle, mezzo astrologi e mezzo astronomi, la cui fede è misteriosa e di cui non si sa nulla se non che non sono del luogo, fanno un lungo viaggio mossi da un invito luminoso e estremamente attraente. Il loro cammino affronta molte difficoltà, non prima quella del lungo cammino mosso da pochi indizi e anche la difficoltà di una Gerusalemme tutto sommato ostile e di poco aiuto per loro.
Ma è la gioia “la benzina” che muove le loro gambe e non li scoraggia, ed è una gioia che non calerà anche di fronte ad un re dei giudei tutto sommato inaspettato rispetto alle aspettative di come dovrebbe essere un re. E finita la loro visita ripartono ancor più decisi e ispirati non più da una stella ma da un sogno rivelatore, che nella bibbia è segno della voce di Dio che parla al cuore. Sono cresciuti anche nella fede e nella conoscenza di Dio che ora parla loro in modo più chiaro e intimo.
E’ davvero affascinante questo loro venire da lontano, fuori dagli schemi e imprevisti (e imprevedibili). La scena del Natale con questi magi ci racconta fin da subito che l’evento Gesù non si ferma a pochi eletti, ma fa diventare ogni essere umano eletto davanti a Dio e protagonista della sua storia di Salvezza.
Per il Vangelo la scena del presepe quindi si espande e coinvolge tutta la terra, ogni essere umano, da qualsiasi periferia del mondo e dell’esperienza umana provenga.
Quando facevamo il presepe a casa, appena concluse le feste natalizie, smontavamo tutto rimettendo scenografie e statuine nelle scatole fino al Natale successivo. Il gioco del progressivo avvicinamento dei magi non veniva fatto anche per la loro partenza e viaggio di ritorno (come è raccontato nel Vangelo), ma pensandoci sarebbe stato bello farlo, per completare il messaggio dell’Epifania, cioè della Manifestazione del Signore a tutti i popoli.
Ma se i presepi di gesso, legno o plastica rimangono un bel segno smontabile a fine feste, il messaggio di un presepe che non ha più barrire e che si espande fino agli estremi confini della terra lo possiamo tenere installato per sempre nel nostro cuore e nello stile della nostra vita di fede e comunitaria.

Giovanni don

 

Ha preso carne. Finalmente

Scelse la carne ch’era il punto di massima lontananza dal Cielo: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14). Non fu per spavalda provocazione ma per la più intima delle affinità: scegliere ciò ch’era debole per confondere i forti, sposare il lontano per farlo sentire vicino, inabissarsi nell’uomo perché il Cielo penetrasse la terra. Fu l’inaudito di Betlemme, la casa del pane e della carne di Dio. Pane e carne, pane e pesce, pane e acqua: ci sarà sempre un pane a disposizione per chi, sazio di tutto, avvertirà nel cuore la fame e la sete dell’essenziale: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (1,4). Capiterà l’assurdo, come in principio capitò l’inaudito: capiterà che gli uomini alla luce preferiscano le tenebre. C’è sempre qualcuno che scambia il sole per un punti giallo: i Vangeli questo lo mettono in conto. Lo calcolano e ne anticipano le conseguenze: «A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio» (1,12).

Carne si fece: null’altro e nessun altro potrà più osare di oltrepassarlo. Nella carne nascose la festa dei sensi: ascoltare quella carne sarà ascoltare Lui. E ascoltarlo sarà una festa. La festa degli occhi, di «quello che abbiamo veduto con i nostri occhi» (1Gv 1,1). Era il sogno di Mosè, che un giorno non si trattenne e diede voce a quel desiderio: «Ti prego, fammi vedere la tua gloria!». Ottenne un secco diniego, pur con una motivazione in calce: «Tu non puoi vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere» (Es 33,18-20). Seppur di provenienza divina, quel no non impedì all’uomo di coltivare ad oltranza una mal e mai celata nostalgia del Suo sguardo: «I miei occhi sono sempre rivolti al Signore» (Salmi 25,15). Ciò che Mosè non potè, apparve di sorpresa a dei suoi discendenti per mestiere, anch’essi pastori: «Andiamo (…) vediamo questo avvenimento» (Lc 2,15). Videro e si stupirono. Credettero.

Divenne la festa delle orecchie, «quello che noi abbiano udito» (1Gv 1,1). A chi si fiderà dell’udito, capiterà di vedersi cambiata la vita. Di veder tramutare una notte infruttuosa di pesca in un mattino copioso di pesci. Il segreto – anche per pescatori d’arte e di mari – sarà quello di ascoltare la direzione nella quale butta quella voce: sempre nel lato giusto, quello che pare sempre il più insensato. Quello favorevole a farsi ridere dietro dalla gente seduta a riva. Le reti, però, seguiranno la parola: «Sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,5). La parola, dal canto suo, accrediterà esattamente quanto aveva fatto udire: «Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano» (5,6). Che è poi la festa del tatto: «quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita» (1Gv 1,1). Del Dio che si fa contatto: intimità, tocco, ritocco, rintocco. Toccherà sempre la Divinità: saranno gioie e guai ad intervalli più o meno regolari. Batoste e incoraggiamenti: il suo tocco farà fumare i monti come sprofondare le terre, chiuderà e aprirà le bocche, costruirà e rimetterà mano alle sue costruzioni per restaurarle. Coprirà vallate di ossa cucendo addosso la carne, strapperà dalle grinfie del leone la vita come carezzerà sguardi resi ciechi ad oltranza. Con le mani in pasta: un Dio artigiano e vasaio, costruttore e manovale, pescatore e carpentiere. Con mani di padre, di madre e di Dio. Di preferenza scelse mestieri all’aria aperta: quelli che, a forza di tocchi e spinte, fanno nascere i calli, sformano le dita, anneriscono le unghie. Un Dio toccante: che tocca, emozionante. Lo crocifiggeranno un giorno. Lui risponderà a modo suo, risorgendo: la festa del gusto e dell’olfatto. Della memoria e del piacere. Di ciò che sino ad allora era follia anche solo a pensarci. Di ciò che rimase, al netto di ogni rifiuto: «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,5).

Ancor oggi il mondo, quando Lo incrocia, lo lascia passare: il mondo intero si ferma quando incontra un uomo che sa dove andare. Per questo taluni Gli danno sempre la preferenza: non certo per pudore o buona educazione. Semplicemente per paura: paura di dover fare i conti con la sua Luce.

(D. Marco Pozza)

Cristo è il signore della pace

Sei giorni fa ho presentato il Mistero del Natale come la Rivelazione di una relazione nuova con Dio e tra di noi: “Non vi chiamo più servi, ma amici!”. La presenza del Signore nella nostra vita è quella di un amico fidato. Il Suo amore non verrà mai meno: anche “se noi manchiamo di fede, Egli però rimane fedele, – scrive san Paolo – perché non può rinnegare se stesso” (2Tim 2,13): in altri termini la fedeltà di Dio è costitutiva della Sua stessa natura, è iscritta nel Suo DNA.

Dio è per essenza FEDELTÀ; gli sposi cristiani dovrebbero conoscere bene questa qualità di Dio, visto che l’hanno scelta come carattere distintivo del loro matrimonio… Ma non solo gli sposi cristiani sono chiamati per vocazione a conformarsi alla fedeltà di Dio; la fedeltà è anche ciò che ci rende immagine e somiglianza di Dio.

Oggi celebriamo la 48° Giornata Mondiale della Pace: la fedeltà di Dio agli uomini, degli uomini a Dio e tra di loro è indispensabile per instaurare una pace reale, profonda e duratura. La fedeltà è condizione necessaria per acquisire fiducia reciproca, vincendo ogni istintiva diffidenza. Quando c’è reciproca diffidenza, non può esserci vera pace: la cosiddetta guerra fredda è appunto la situazione nella quale, di fronte a noi, non sta l’amico, ma un potenziale (nemico) aggressore – almeno così lo consideriamo e ovviamente siamo da lui considerati -: le armi sono schierate, basta un battito di ciglia per scatenare il conflitto. Le conseguenze non favoriscono certo l’instaurazione di un clima di pace: la prima conseguenza è il sospetto; la seconda è il pregiudizio; la terza è la facile strumentalizzazione di gesti e parole altrui, per rafforzare la convinzione che l’altro stia tramando contro di noi. Se non impariamo a vincere la tentazione di nutrire sospetti, pregiudizi e strumentalizzazioni, anche noi diventiamo come quelli che vedono sempre e solo il bicchiere mezzo vuoto, (che vedono) il male e non il bene; prospettive di miglioramento nessuna, speranza zero…

E invece la speranza è necessaria forse più di tutto il resto, per andare incontro al nostro futuro! Senza speranza non c’è neppure futuro – intendo un futuro diverso dal presente, migliore -.

Senza speranza viviamo bloccati, come in un fermo-immagine, ove la realtà si ripete, sempre uguale a se stessa. E, visto che la realtà attuale non è proprio il massimo che possiamo augurarci a Capodanno, coloro che hanno perduto la speranza, hanno rinunciato a lottare perché la realtà cambi; sono rassegnati al peggio, aspettano solo più la fine.

L’omaggio dei pastori al bambino e sua madre è conseguenza ‘naturale’ dell’annuncio dato a loro dagli angeli: “Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore…” (Lc 2). Queste parole erano state precedute dall’inno delle schiere celesti: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama”: il binomio “Gloria a Dio” e “Pace agli uomini” è fondamentale nell’economia del Vangelo. La gloria che l’uomo è chiamato ad innalzare a Dio e la pace che lo stesso uomo è chiamato a costruire sulla terra rappresentano le due coordinate della salvezza. Il mondo può rendere la giusta adorazione al Padre se e soltanto se si impegna a edificare la pace. L’uomo che dà gloria a Dio è lo stesso (uomo) che può impegnarsi a costruire e custodire legami di pace. Con quale coraggio, con quale consapevolezza il nostro cuore, le nostre labbra potranno cantare il Gloria, se nel mondo manca la pace? se tra coloro che compiono gesti di autentica riconciliazione, noi non ci siamo? Sarebbe una gigantesca menzogna! È una gigantesca menzogna! È ipocrisia pura! Una clamorosa finzione!

Chissà perché i bambini giocano sempre alla guerra? Anch’io da bambino giocavo alla guerra, indiani contro cowboy… e perdevo sempre… Forse è per questo che l’ottimismo non è mai stato il mio forte. Perché, invece, non insegniamo ai nostri figli a giocare alla pace?

Nostro malgrado, la vita non è un gioco.

Uno dei segreti più preziosi della pace è saper ascoltare l’altro, gli altri, e custodire nel cuore ciò che abbiamo ascoltato: in verità ascoltare e custodire sono una azione sola. Maria ci insegna questa elementare verità, tanto elementare che pochi di noi se la ricordano… del resto, sono passati tanti anni da quando andavamo alla scuola elementare…

Come i pastori, anche noi, tra poco ritorneremo alle nostre case, alle nostre faccende, ai nostri affetti, ai nostri problemi,… Ci ricorderemo di glorificare Dio e di raccontare ciò che abbiamo visto e sentito? Ecco l’ultimo ingrediente per costruire la pace: bisogna parlarne, bisogna annunciarla! È necessario reagire alle provocazioni con altrettanti messaggi di pace!

Pensate che cosa accadrebbe se ognuno di noi decidesse di non far più valere le offese subite, anche se la legge è dalla nostra parte… Rivendicare il rispetto e l’applicazione della legge civile e penale non è l’unico comportamento etico; e soprattutto non è sempre un comportamento cristiano!! Nei capitoli 5-7 del Vangelo di Matteo, il Signore cita alcuni casi di violenza, per i quali la Legge di Mosè autorizzava una reazione uguale contraria, in altre parole, la vendetta – occhio per occhio, dente per dente; odiare i nemici,… -; ebbene, Gesù ripetutamente dichiara: “Ma io vi dico…” e così dicendo promulga la regola aurea del perdono incondizionato.
Senza perdono non c’è pace, né mai ci sarà!

Ricordiamo che il perdono non risponde a un dovere umano-solo-umano. Un uomo non è mai obbligato a perdonare… ma un cristiano sì!

Cristo è il Signore della pace: in occasione della cena di addio Gesù lasciò in pegno agli Undici la Sua pace; e apparendo risorto, la sera di Pasqua, augurò pace a loro. È come se avesse voluto riprendere il discorso da dove lo aveva interrotto tre sere prima… Il dono della pace è il filo rosso che riannoda le relazioni cristiane e toglie alla morte l’ultima parola.

Credere in Cristo, scegliere Lui come nostro Signore comporta il dovere grave di diventare anche noi ambasciatori di riconciliazione e di perdono, testimoni credibili e operatori efficaci di pace.

(Fr. Massimo Rossi)