Cos’è che rende un uomo grande, ammirato dal creato, gradevole agli occhi di Dio?

Cos’è che rende un uomo grande, ammirato dal creato, gradevole agli occhi di Dio? 
Cos’è che rende un uomo forte, più forte del mondo intero; cos’è che lo rende debole, più debole di un bambino? 
Cos’è che rende un uomo saldo, più saldo della roccia; cos’è che lo rende molle, più molle della cera? 

È l’amore! 

Cos’è che è più vecchio di tutto? È l’amore. 
Cos’è che sopravvive a tutto? È l’amore. 
Cos’è che non può essere tolto, ma toglie lui stesso tutto? È l’amore. 
Cos’è che non può essere dato, ma dà lui stesso tutto? È l’amore. 
Cos’è che sussiste, quando tutto frana? È l’amore. 
Cos’è che consola, quando ogni consolazione viene meno? È l’amore. 
Cos’è che dura, quando tutto subisce una trasformazione? È l’amore. 
Cos’è che rimane, quando viene abolito l’imperfetto? È l’amore. 
Cos’è che testimonia, quando tace la profezia? È l’amore. 
Cos’è che non scompare, quando cessa la visione? È l’amore. 
Cos’è che chiarisce, quando ha fine il discorso oscuro? È l’amore. 
Cos’è che dà benedizione all’abbondanza del dono? È l’amore. 
Cos’è che dà energia al discorso degli angeli? È l’amore. 
Cos’è che fa abbondante l’offerta della vedova? È l’amore. 
Cos’è che rende saggio il discorso del semplice? È l’amore. 
Cos’è che non muta mai, anche se tutto muta? 

È l’amore, e amore è solo quello che mai si muta in qualcos’altro.

(S. kierkegaard)

S. Luca. Evangelista, medico e pittore della Misericordia di Cristo

S. Luca. Evangelista, medico e pittore della Misericordia di Cristo
di Giovanni Succurro.

 

San Luca è l’evangelista che ci accompagnerà, nella liturgia della Parola, durante l’anno della Fede.

San Luca è “il caro medico” (come lo chiama S. Paolo nella lettera ai Colossesi) che segue l’apostolo delle genti nel secondo e nel terzo viaggio apostolico.
Autore del Vangelo e degli Atti degli apostoli, due opere non separate ma che costituiscono, secondo l’intenzione dell’autore, un unico progetto unitario.

 La figura di Gesù che emerge da questo vangelo è molto originale: Luca, infatti, afferma di aver condotto ricerche personali e molto accurate per conoscere la realtà delle opere e delle parole di Gesù di Nazareth, scoprendo così aspetti inediti.
Ad esempio i cosiddetti “vangeli dell’infanzia”, pagine preziosissime e uniche per la tradizione cristiana, pagine che tratteggiano i momenti che storicamente precedettero la Natività del Figlio di Dio, sono un regalo dell’intuizione lucana che non esitò per “deformazione professionale” a «fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi».
Lo stesso Card. Ravasi afferma e conferma quanto detto: “La ricerca di Luca è degna della massima credibilità perché ha seguito passo dopo passo ogni avvenimento narrato, in modo serio e scrupoloso, su tutto e su ogni singola notizia e perché ha cercato di risalire fino alle origini”.

Il leitmotiv dell’opera però risulta essere uno: l’amore misericordioso di Gesù. Il cuore di Cristo è posto al centro e possiamo dire che costituisce la chiave di lettura dell’intero Vangelo. Una narrazione colta nella sua autenticità se letta alla luce dell’amore senza limiti di Dio. Solo Luca riporta la parabola del figlio prodigo, della dracma perduta e del buon samaritano.
È Gesù il buon samaritano che si ferma, che fascia le ferite, che versa olio e vino, che paga l’albergo “fino al suo ritorno”. Il Signore, mediante la sua Incarnazione si è fermato con noi, ha voluto sostare ponendo la sua dimora; ci ha fasciato le ferite del peccato, mentre, indirizzati verso Gerico, città ritenuta paganizzante, siamo incappati nei briganti. Quando, privi della grazia di Dio e cioè “mezzi morti” , il Signore versa olio e vino, elementi dagli echi sacramentali e, sempre a sue spese, ci porta nell’albergo, la Chiesa, “donec venias” (nell’attesa della sua venuta!).
È ancora l’evangelista Luca che parla della premura di Gesù per i poveri. Con accenti più amorevoli degli altri. Ci presenta il Signore commosso davanti allavedova di Nain a cui dice “Non piangere”; che accoglie la peccatrice in casa di Simone il fariseo, che cambia il cuore sordido di Zaccheo in un cuore pentito e generoso; Zaccheo scende dall’albero delle sue illusioni, delle sicurezze insicure, e cambia vita restituendo “quattro volte tanto”.
Questi sono i veri miracoli di Gesù, più grandi della tempesta sedata, della moltiplicazione dei pani, della risurrezione di un giovane. Sono questi gli eventi storici che meritano maggiore attenzione. Quando Gesù placa la tempesta dell’anima e vi moltiplica la sua pace, quando risuscita la vita di grazia perduta “verso Gerico”, un’esperienza che rende più felici del ritrovamento di una moneta, per quanto sia preziosa. E poi il padre che corre incontro al figlio, che fa festa, che uccide il vitello grasso.
San Luca non descrive, dipinge tutto con una minuzia quasi chirurgica direi, solo di un medico, solo di un appassionato di Cristo, solo di un santo. Personalmente, poi, mi colpisce sempre un dettaglio in più che Luca riporta rispetto agli altri, mi riferisco allo sguardo di Gesù a Pietro, immediatamente dopo il rinnegamento. Proprio il primo degli apostoli a cui Cristo diede le “chiavi del Regno”, che confessò uomo-Dio Gesù di Nazareth, che vide il Signore compiere prodigi strepitosi e azzittire i farisei, proprio lui, afferma di non conoscerlo. Certo quello che in pochi istanti avveniva sotto i suoi occhi non era previsto. Per niente, o quantomeno non in questo rapido evolversi, sicuramente senza il bacio di Giuda. E quanto gagliardamente affermato poche ore prima, “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte”, pareva eclissarsi dietro un senso di sgomento senza controllo, non riuscendo a riconoscere il Pietro di sempre, intrepido e dall’animo duro come le mani del pescatore. San Giovanni Crisostomo però magistralmente commenta: “La caduta di Pietro ci predica la fragilità della natura dell’uomo, quando esso non è sostenuto da Dio”. “E uscito, pianse amaramente”. A tal proposito vorrei riportare quanto dice a riguardo Mons. Fulton Shenn, ausiliare di New York negli anni sessanta: “Mosè percosse la roccia e ne scaturì acqua, Cristo guardò la Roccia (Tu sei Pietro…) e ne scaturirono lacrime.” Non uno sguardo di rabbia, non di delusione, ma solo perdono. Proprio questo scosse il cuore di colui che venne scelto per guidare la Chiesa di Cristo, e anche se una antica tradizione afferma che ogni qualvolta san Pietro udiva il canto del gallo scoppiasse in pianto, ciò non volge a discapito dell’amore che ciascuno di noi dovrebbe nutrire per la Chiesa.
Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro celeste”.
La perfezione sta in questo. Luca dice “misericordiosi”, Matteo “perfetti”, ma non si oppongono, si completano! Il cristiano e ancor di più un membro dell’AdP, si distingue nell’esercizio di questa virtù. La perfezione sta nell’amore che si traduce nelle opere di misericordia, sia materiale che spirituale, e qui il catechismo ci viene incontro.

Questo tempo di grazia ci sia propizio per entrare sempre meglio nel “Cuore che tanto ha amato il mondo”, mistero che San Luca ha meravigliosamente centrato.

La felicità

E crescendo impari che la felicità non è quella delle grandi cose. 
Non è quella che si insegue a vent’anni, quando, come gladiatori si combatte il mondo per uscirne vittoriosi… 
la felicità non e’ quella che affanosamente si insegue credendo che l’amore sia tutto o niente,… 
non è quella delle emozioni forti che fanno il “botto” e che esplodono fuori con tuoni spettacolari… 
la felicità non e’ quella di grattacieli da scalare, di sfide da vincere mettendosi continuamente alla prova. 

Crescendo impari che la felicità è fatta di cose piccole ma preziose… 
…e impari che il profumo del caffè al mattino è un piccolo rituale di felicità, che bastano le note di una canzone, le sensazioni di un libro dai colori che scaldano il cuore, che bastano gli aromi di una cucina, la poesia dei pittori della felicità, che basta il muso del tuo gatto o del tuo cane per sentire una felicità lieve. 

E impari che la felicità è fatta di emozioni in punta di piedi, di piccole esplosioni che in sordina allargano il cuore, che le stelle ti possono commuovere e il sole far brillare gli occhi, 
e impari che un campo di girasoli sa illuminarti il volto, che il profumo della primavera ti sveglia dall’inverno, e che sederti a leggere all’ombra di un albero rilassa e libera i pensieri. 

E impari che l’amore è fatto di sensazioni delicate, di piccole scintille allo stomaco, di presenze vicine anche se lontane, e impari che il tempo si dilata e che quei 5 minuti sono preziosi e lunghi più di tante ore, 
e impari che basta chiudere gli occhi, accendere i sensi, sfornellare in cucina, leggere una poesia, scrivere su un libro o guardare una foto per annullare il tempo e le distanze ed essere con chi ami. 

E impari che sentire una voce al telefono, ricevere un messaggio inaspettato, sono piccolo attimi felici. 
E impari ad avere, nel cassetto e nel cuore, sogni piccoli ma preziosi. 

E impari che tenere in braccio un bimbo è una deliziosa felicità. 
E impari che i regali più grandi sono quelli che parlano delle persone che ami.. 
E impari che c’è felicità anche in quella urgenza di scrivere su un foglio i tuoi pensieri, che c’è qualcosa di amaramente felice anche nella malinconia. 

E impari che nonostante le tue difese, 
nonostante il tuo volere o il tuo destino, 
in ogni gabbiano che vola c’è nel cuore un piccolo-grande 
Jonathan Livingston. 
E impari quanto sia bella e grandiosa la semplicità.

(F. Volo)

Beato sarai se…

Sarai beato se accoglierai la luce e il buio che convivono dentro te, 
se busserai alla porta di chi sta soffrendo, 
se conterai lentamente sino a dieci prima di sbottare, 
se deporrai l’arma della vendetta, 
se eviterai le discussioni inutili, 
se farai felice almeno una persona al giorno, 
se porterai buon umore attorno a te, 
se inizierai per primo a dare il buon esempio, 
se lavorerai con passione e precisione, 
se ti metterai qualche volta nei panni degli altri, 
se offrirai sempre una possibilità a chi ha sbagliato, 
se penserai prima di parlare, 
se non ricambierai il male con il male, 
se rispetterai chi è diverso da te e dalle tue idee, 
se scoprirai nelle persone il lato migliore, 
se vivrai ogni giornata come se fosse la tua unica occasione per dare il meglio di te. 
Se vivrai così, sarai beato, 
non avrai vissuto inutilmente e 
sarai ricordato con amore.

(D. Angelo Saporiti)

L’amore

Un giorno un uomo si recò da un vecchio saggio per chiedergli consiglio. Disse che non amava più la sua sposa e che pensava di separarsi da lei. 
Il saggio lo ascoltò, lo guardò negli occhi, e disse solamente una parola: 
“Amala” e tacque. 
“Ma io non provo più nulla per lei”. 
“Amala”, ripeté il saggio. 
Di fronte allo sconcerto del visitatore, dopo un opportuno silenzio, il vecchio saggio aggiunse: 
“Amare è una decisione, non solo un sentimento, amare è dedicarsi ed offrirsi, amare è un verbo e il frutto di questa azione è l’amore. L’amore è simile al lavoro di un giardiniere: egli strappa ciò che fa male, prepara il terreno, coltiva, innaffia e cura con pazienza. Affronta periodi di siccità, grandine, temporale, alluvione, ma non abbandona mai il suo giardino. Ama la tua compagna, accettala, valorizzala, rispettala, dalle affetto e tenerezza, ammirala e comprendila. 
Questo è tutto; amala”. 

La vita senza amore potrebbe avere queste conseguenze:
L’intelligenza senza amore ti renderebbe insensibile.
La giustizia senza amore ti renderebbe ipocrita.
Il successo senza amore ti renderebbe arrogante.
La ricchezza senza amore ti renderebbe avaro.
La docilità senza amore ti renderebbe servile.
La bellezza senza amore ti renderebbe superbo.
L’autorità senza amore ti renderebbe tiranno.
Il lavoro senza amore ti renderebbe schiavo.
La preghiera senza amore ti renderebbe arido.
La fede senza amore ti renderebbe fanatico.
La croce senza amore si convertirebbe in tortura.
La vita senza amore non avrebbe alcun senso.
Nella vita l’amore è tutto…

(Anonimo)

Un giorno…

Un giorno ci nutrirà 
solo il pane che abbiamo dato da mangiare; 
ci disseterà 
solo l’acqua che abbiamo dato da bere; 
ci vestirà 
solo il vestito che abbiamo donato; 
ci rallegrerà 
solo il pellegrino che abbiamo ospitato. 
Ci consolerà 
solo la parola che abbiamo detto per confortare; 
ci guarderà 
solo l’ammalato che abbiamo assistito; 
ci visiterà 
solo il prigioniero che abbiamo visitato. 
La fatica di vivere 
è fatica di costruire; 
la realtà non si trasforma a partire dai sogni, 
ma dalla realtà. 
Abbiamo studiate molte parole d’Amore, 
abbiamo coniate molte parole d’Amore. 
Confortaci e, se necessario, 
scuotici, o Signore: 
non ci accada che, 
partiti infine dal mondo, 
lasciamo non attuate 
troppe parole d’Amore.

(rivista il Carmelo e le missioni)

Fede è saper dire grazie

Messa ringraziamento (colored)

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
(dal Vangelo di Luca 17,11-19)

Per noi preti di oggi, in questa nostra società sempre più secolarizzata dove la frequenza alle messe domenicali è sempre più bassa, questo vangelo è davvero consolante!
Se facciamo una rapida sintesi numerica dell’episodio narrato dall’evangelista Luca, possiamo dire che Gesù nella sua azione aveva una risposta del 10%. Infatti su 10 lebbrosi che in qualche modo guarisce, solo uno di loro torna indietro a lodare Dio… Se sono vere le indagini secondo le quali ancora il 20% degli cristiani italiani viene a Messa ogni domenica, possiamo dire che oggi facciamo meglio del Signore!
Accostamento un po’ azzardato? Forse no…
L’Eucaristia domenicale (termine più corretto per indicare quella che comunemente diciamo Messa) significa proprio “rendere grazie”. Noi la domenica ci ritroviamo insieme come cristiani per direun grande grazie a Dio attraverso i gesti e le parole di Gesù suo Figlio.
Se non cogliamo questo significato primario della nostra preghiera domenicale in chiesa rischiamo davvero di non capire il motivo per cui ci raduniamo.
L’episodio narrato nel Vangelo è un ottimo insegnamento di vita cristiana e ci aiuta a dare un senso alla celebrazione domenicale, che per molti non ha più tanto senso, e quindi l’hanno in fretta abbandonata, e per tanti altri rischia di essere solamente un buon esercizio di buona volontà.
Gesù incrocia la povertà di 10 persone, che secondo la mentalità del tempo, sono maledette da Dio perché segnate da una malattia, la lebbra, ritenuta un castigo. Sono degli impuri per gli uomini e per Dio. Gesù invita loro a fare quello che era prescritto nella Legge, cioè di presentarsi ai Sacerdoti del Tempio, affinché constatassero che erano guariti. Implicitamente Gesù comunica loro che saranno guariti (e quindi resi puri davanti a Dio), e loro partono pur essendo ancora lebbrosi, fidandosi di questa promessa implicita.
Partono in questo viaggio di speranza e sono mossi dalla fiducia, e vengono guariti. Sullo sfondo si vede l’intervento misterioso di Dio che ridona loro nuova dignità sociale e religiosa.
Il racconto del Vangelo poteva forse fermarsi qui. C’è stata una richiesta (“Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”), e c’è stata una risposta. I 10 si sono fidati e sono stati “premiati”.
Questa è fede? Sembra proprio di no… O almeno non è la fede che Gesù insegna.
Il colpo di scena è che lo straniero del gruppo torna indietro. Proprio lui che aveva una sorta di doppia maledizione (lebbroso e samaritano) è l’unico che ha un movimento di vera risposta e diventa esempio.
Riconosce che è stato raggiunto da Dio e sente l’insopprimibile desiderio di tornare a ringraziare, di riallacciare un rapporto più profondo con quel Maestro Gesù nel quale vede ancor più chiaramente un segno di Dio. Non sappiamo se sia effettivamente andato a fare l’atto religioso prefissato, ma poco importa. Più importante è che trasforma la sua guarigione-purificazione in relazione con Gesù. Non è solo guarito ma ora è anche salvo (“…va’, la tua fede ti ha salvato!”).
La fede senza ringraziamento non è vera fede.

La fede non è semplicemente un atto di buona volontà che si dimostra con atti religiosi esteriori magari vissuti controvoglia e magari motivati dalla paura del castigo o dall’aspettativa del premio finale.
La fede è riconoscersi guariti da Dio, raggiunti dal suo amore, anche se non ci siamo meritati nulla…
La fede è rispondere a Dio con la ricerca di una relazione sempre più stretta con Gesù, sentendo il desiderio di conoscerlo in quel che fa e dice…
La fede è far prevalere in noi un sentimento di gratitudine che scaccia via paure e risentimenti, calcoli e giudizi…
La fede è sentire che abbiamo sempre da dire grazie a Gesù, perché non ci meritiamo nulla, ma da lui abbiamo tutto gratuitamente…
Ecco qui il senso della nostra preghiera domenicale: rendere grazie a Gesù di quello che siamo e di quello che abbiamo. E il grazie vero non è tale se non accompagnato dal sorriso e dalla pace del cuore.
Tutto questo ovviamente non è mai così definitivo e possibile, perché spesso abbiamo più motivi per essere tristi che felici. Ma proprio per questo il grande grazie domenicale che facciamo in chiesa la domenica non lo facciamo mai da soli, ma come comunità.
Insieme rendiamo grazie perché ci sosteniamo l’un l’altro e insieme ricerchiamo i motivi per dire grazie a Dio. E se qualcuno accanto a me soffre e non sa dire grazie, io lo dico con lui e faccio in modo che possa dirlo in futuro, prendendomi carico delle sue tristezze e difficoltà.
Fede è rendere grazie… e per rendere grazie mi impegno nell’amore.

 

Giovanni don

Decalogo della parola

1. Prima di parlare controlla che il cervello sia inserito. 
2. Non parlare di te: lascia che siano gli altri a scoprirlo. 
3. Regala parole buone: la scienza sta ancora cercando una medicina più efficace delle parole buone. 
4. Non dire tutto ciò che pensi, ma pensa a tutto ciò che dici. 
5. Adopera ragioni forti con parole dolci. 
6. Quando parli, pensa all’insalata: è buona se ha più olio che aceto. 
7. Non basta parlare: bisogna comunicare. Chi parla difficile non comunica. 
8. Ascolta! Ascoltare è la forma più raffinata di parlare. 
9. Quando senti altrui mancamenti, serra la lingua tra i denti. 
10. Parla per ultimo: sarai ricordato per primo.

(P. Pellegrino)

La strada per Dio

Molti eremiti abitavano nei dintorni della sorgente. Ognuno di loro si era costruito la propria capanna e passava le giornate in profondo silenzio, meditando e pregando. Ognuno, raccolto in se stesso, invocava la presenza di Dio.
Dio avrebbe voluto andare a trovarli, ma non riusciva a trovare la strada. Tutto quello che vedeva erano puntini lontani tra loro nella vastità del deserto. Poi, un giorno, per una improvvisa necessità, uno degli eremiti si recò da un altro. Sul terreno rimase una piccola traccia di quel cammino. Poco tempo dopo, l’altro eremita ricambiò la visita e quella traccia si fece più profonda. Anche gli altri eremiti incominciarono a scambiarsi visite.
La cosa accadde sempre più frequentemente. Finché, un giorno, Dio, sempre invocato dai buoni eremiti, si affacciò dall’alto e vide che vi era una ragnatela di sentieri che univano tra di loro le capanne degli eremiti. Tutto felice, Dio disse: “Adesso si! Adesso ho la strada per andarli a trovare”.

Ma com’è difficile tracciare uno di quei sentierini.

(B. Ferrero)

Guardare i segni

Anche tu, Gesù, domandi a noi, 
di restare svegli e di tenerci pronti 
per cogliere i segni. 
I tuoi segni 
non sono solo quelli del cielo e della terra. 
Sono quelli che si trovano 
nella storia di tutti giorni. 
Quando vediamo che marito e moglie non si rispettano più, 
vuol dire che il matrimonio è in pericolo. 
Quando vediamo che le nostre giornate sono sempre tristi, 
vuol dire che ci stiamo lasciando andare. 
Quando vediamo che non ricerchiamo momenti di silenzio, 
di preghiera, di ricarica dell’anima, 
vuol dire che il nostro cuore sta inaridendo. 
Quando non riusciamo mai a fermare il nostro cervello 
che sembra un fiume di pensieri in piena, 
vuol dire che abbiamo bisogno di una sosta mentale. 
Quando il nostro corpo si ribella e inizia 
a mandarci messaggi di malattia, 
vuol dire che la nostra vita interiore sta soffrendo. 
Quando nostro figlio urla sempre e non è capace di relazionarsi con noi o con altri compagni, 
vuol dire che ci sta dicendo che ha un problema. 
Tu, Gesù, ci domandi 
di restare svegli e di tenerci pronti 
per cogliere i segni 
di una speranza mai estinta 
di una luce che brilla anche nelle situazioni più disperate. 
A noi essere gli scopritori dei tuoi segni. 
A noi essere i testimoni del tuo grande amore. 
Amen.

(D. Angelo Saporiti)