La sfida del buio

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In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!»
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!»
Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
(dal Vangelo di Marco 10,46-52)

Quando si entra in un luogo molto buio per doverlo attraversare venendo da un luogo al contrario molto luminoso, a tutti capita quella sensazione sgradevole di non vedere nulla e di sentirsi incapaci di andare avanti. L’esperienza insegna che basta solo attendere un po’ che gli occhi si abituino, e basta pochissima luce per riuscire ad orientarsi senza problemi nell’oscurità. In quelle occasioni ci vien subito da dire “non ci vedo!”, ma il problema non sta nell’incapacità assoluta di non vedere, ma solo del tempo necessario all’occhio di adattarsi alla poca luce. Ci vuole solo un po’ di pazienza e fiducia.
Mi sono immedesimato in questo cieco raccontato nel Vangelo lungo la strada verso Gerico. Nel cieco mendicante che urla a Gesù, rivedo la mia incapacità di vedere, non tanto dal punto di vista fisico, ma soprattutto dentro la mia vita e attorno a me la vita delle altre persone. Vedo anche la mia poca capacità di “vedere” Dio nella mia vita, al punto da sentirmi spesso smarrito e nel buio spirituale.
In questo cieco sono rappresentati gli stessi discepoli di Gesù che più volte dimostrano di vederci spiritualmente assai poco, abbagliati dal desiderio di gloria e potere, e che non riescono a vedere il vero volto di Gesù (come nell’episodio di Giacomo e Giovanni che chiedono a Gesù di sedere alla destra e sinistra). E Gesù nella guarigione del cieco Bartimeo vuole guarire i discepoli e in fondo anche me e chiunque nella fede come nella vita si sente nel buio e perso.
E’ singolare nel racconto il modo di agire di Gesù, che non si avvicina al povero malato, ma lo fa chiamare, rendendolo protagonista della sua stessa guarigione. Gli propone una sorta di cammino di liberazione dalla cecità spirituale, che lo porti ad abbandonare la sua posizione sul margine della strada insieme alle sue sicurezze (il mantello) per accettare una nuova visione del mondo e di Gesù.
Ci vuole coraggio per cambiare e iniziare a vedere se stessi, gli altri e Dio in modo diverso. Ci vuole il coraggio di ascoltare una chiamata che ci rimette in moto interiormente.
In questi giorni la Chiesa con il Sinodo sulla famiglia sta cercando questo coraggio. Accettare il Vangelo come punto di riferimento significa non rimanere comodi e sicuri, ma mettersi alla sequela di Gesù che è in cammino sulla strada della storia. La Chiesa rischia di sembrare cieca (e anche sorda) se non apre gli occhi al mondo con lo sguardo di Gesù. E come chi entra in una stanza buia e con pazienza cerca di vedere oltre il primo impatto di totale oscurità, così anche noi come cristiani dobbiamo armarci di coraggio e andare, anche se all’inizio a tentoni, verso il mondo che ha bisogno di noi e nel messaggio di luce che abbiamo ricevuto in consegna.

Giovanni don

Diffondere la combattiva tenerezza di Dio

Picture16[1]Ti rendo lode, Padre… il Vangelo re­gistra uno di quegli slanci im­provvisi che accendevano di esul­tanza e di stupore gli incontri di Gesù: i piccoli lo capiscono, capiscono il segre­to del vivere. Sono i piccoli di cui è pie­no il Vangelo: poveri, malati, vedove, bambini, i preferiti da Dio. Rappresen­tano l’uomo senza qualità che Dio ac­coglie nelle sue qualità.
Perché hai rivelato queste cose ai picco­li…
Le cose rivelate non si possono re­cintare in una dottrina, non costituisco­no un sistema di pensiero. Gesù è venu­to per mostrare, per raccontare la rivo­luzione della tenerezza di Dio (papa Francesco), nucleo originario e fre­schezza perenne del suo Vangelo.

Questa rivoluzione della tenerezza, Dio al fianco dei piccoli, è la vera lingua u­niversale, l’unica lingua comune ad ogni persona, in ogni epoca, su tutta la terra. Un piccolo capisce subito l’essenziale: se gli vuoi bene o no. In fondo è questo il segreto semplice della vita. Non ce n’è un altro, più profondo. I piccoli, i pecca­tori, gli ultimi della fila, le periferie del mondo hanno capito che in questa ri­voluzione della tenerezza sta il segreto di Dio.

Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Gesù viene e porta il ristoro della vita, mostra che è possibile vivere meglio, per tutti. Il Van­gelo è il sogno di rendere più umana e più bella la vita: l’umanizzazione è il grande segno della spiritualità autenti­ca. Nominare Cristo, parlare di Vangelo, celebrare Messa deve equivalere a confortare la vita affaticata, altrimenti sono parole e gesti che non vengono da lui. Le prediche, gli incontri, le istituzio­ni, devono diventare racconti d’amore, altrimenti sono la tomba della doman­da dell’uomo e della risposta di Dio.

Imparate da me… Andare da Gesù è an­dare a scuola di vita. Gesù: quest’uomo senza poteri ma regale, libero come il vento, che nessuno ha mai potuto com­prare o asservire, fonte di libere vite.
Da me che sono mite e umile di cuore…

Imparate dal mio modo di essere, senza imposizione e senza arroganza. Impa­rate dal mio modo di amare, delicato e indomito. Il maestro è il cuore. Dio stes­so non è un concetto: è il cuore dolce e forte della vita.

Il mio giogo è dolce e il mio peso è legge­ro, dolce musica, buona notizia. Il gio­go, nel linguaggio della Bibbia, indica la Legge. Ora la legge di Gesù è l’amore: prendete su di voi l’amore; prendetevi cura, con tenerezza e serietà, di voi stes­si, degli altri e del creato, diffondete la combattiva tenerezza di Dio, iniziando dai piccoli, che sono le colonne segrete della storia, le colonne nascoste del mondo. Prendersi cura di loro, come fa Dio, è prendersi cura del mondo intero.

(E. Ronchi)

La carità “per caso”

buon samaritano in Italia (colored)

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».
(dal Vangelo di Luca 10,25-37)

Non se l’aspettava questo uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico, di cadere nell’imboscata di questi briganti. Lui non aspettava questo incontro, i ladri invece si. Sono li apposta, interessati ai suoi averi e non alla sua persona. Questo uomo, nella parabola, rimane senza nome. Non sappiamo chi sia, non sappiamo quale è la sua famiglia e nemmeno il perché di quel viaggio. Non sappiamo nemmeno come si è procurato quei beni che possedeva e che gli sono stati rubati con tanta violenza. Questa indeterminatezza è voluta da Gesù. Questo poveretto è un uomo… ogni uomo che per qualche ragione cade in disgrazia e si trova vittima di una violenza non voluta e totalmente subita.
Mi piace sottolineare anche quel “per caso” che sta all’inizio della parte dove viene narrato il passaggio dei tre personaggi che si trovano sulla stessa strada dopo il fattaccio. Tutti e tre, il sacerdote, il levita e il samaritano, capitano li “per caso”. Anche loro non si aspettavano questo incontro.
Tutti e tre avrebbero buone ragioni per tirare diritto e ignorare questo poveretto mezzo morto. Soprattutto il sacerdote e il levita hanno in più le regole della loro tradizione religiosa che impedisce loro, pena l’impurità, di toccare il sangue dell’uomo ferito. Di fatto i primi due passano oltre, e l’evangelista Luca sembra proprio dare l’idea che il poveretto viene letteralmente scavalcato dai due religiosi che hanno qualcosa d’altro e di più importante di cui prendersi cura.
E’ il samaritano l’unico che si ferma. Perché lo fa? Gesù che è rimasto molto sul vago sull’uomo ferito, sottolinea invece la ragione profonda del gesto del samaritano: “…ne ebbe compassione…”. E’ per questo che si prende cura dell’uomo, che anche per lui è uno sconosciuto trovato per caso lungo la strada.
La compassione è quel sentimento che porta a condividere la pena di chi soffre, anche se la storia e le ragioni della sofferenza sono diverse e sconosciute. Il samaritano vede un po’ di se stesso e delle sue sofferenze in questo mezzo morto per strada, pur non sapendo nulla di lui e nemmeno il perché è li per terra.

Non posso a questo punto non ripensare alle parole chiare e forti di papa Francesco pronunciate a Lampedusa dove si è recato per “compassione” di tutte quelle migliaia di persone che sono morte nei viaggi della speranza dall’Africa all’Europa. Quando ho letto di questi due religiosi che passano indifferenti accanto al ferito, pensando probabilmente che non era compito loro prendersene cura, ho ripensato a Francesco quando nell’omelia della messa ha parlato della “globalizzazione dell’indifferenza” difronte alle migliaia di poveri che perdono la vita nei nostri mari. I mezzi di comunicazione mettono tutti noi sulla stessa strada dei tanti poveri del mondo che scappano dalle guerre e dalle povertà più assurde, eppure ci stiamo abituando all’indifferenza, passando “oltre” con la mente, con il cuore e poi nei fatti.
Il samaritano, con la sua compassione e con il suo impegno concreto nel prendersi cura di quest’uomo, sta li a risvegliarci da questa nostra indifferenza che ci rende complici dei briganti. E se neanche Gesù ha voluto dare tante spiegazioni sull’uomo derubato e percosso, anche noi come cristiani non dobbiamo cercare tante spiegazioni e fare troppi ragionamenti preventivi sui poveri del mondo che bussano alle porte dell’Italia e dell’Europa. Non è un invito ad una carità cieca e “a pioggia”, ma una scossa a fermarci e prenderci cura delle situazioni di povertà, evitando di passare oltre indifferenti ma, come il samaritano, trasformando l’incontro “per caso” in una nuova fraternità dell’amore.

 

Giovanni don

Battesimo: immersione nel mondo

battesimo a 30 anni (colored)

In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco».
Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
(dal Vangelo di Luca 3,15-17.21-22)

Battesimo significa letteralmente “immersione”.
Ed è quello che Gesù compie dal momento in cui decide di scendere nel mondo: si immerge completamente nella realtà degli uomini, vivendone le contraddizioni, i drammi, le domande, le gioie e i dolori e persino la morte.
L’evangelista Luca ci presenta in modo veloce ma preciso il contesto del gesto di Gesù. Il popolo in attesa che si domanda se Giovanni è il Cristo, rappresenta tutta l’umanità che in modi diversi si domanda il senso della vita e cerca una risposta su Dio. Potremmo dire che Gesù prima ancora di immergersi nell’acqua del Giordano, si immerge dentro questo popolo e fa proprie le domande e i dubbi di tutti.
La celebrazione del battesimo di Gesù “chiude” liturgicamente il tempo di Natale, nel quale abbiamo ricordato prima di tutto la sua nascita nel corpo reale di un bambino, e poi la sua manifestazione al mondo attraverso questi misteriosi e lontani Magi. Il Battesimo nel Giordano dice chi è Gesù, e ci racconta come egli stesso ha compreso tutta la sua missione che segue.
La voce che scende dal cielo («Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento») è la conferma da parte di Dio che in quell’uomo Gesù è presente l’inviato di Dio.
Io credo che quella voce dal cielo è risuonata continuamente negli orecchi e nel cuore di Gesù durante tutta la sua vita, specialmente quando il percorso si faceva in salita e duro, specialmente quando umanamente sembrava impossibile portare a compimento la volontà di Dio. Gesù non sarà guidato dalla certezza del successo (che di fatto non ci sarà dal punto di vista dell’accoglienza immediata… perché morirà in croce abbandonato dagli stessi amici), ma sarà guidato e sorretto dalla consapevolezza che è amato da Dio, e da lui è chiamato Figlio. Questo amore interiore è la vera forza di Gesù uomo, e mentre tutti penseranno che la morte in croce è la prova che è un reietto da Dio, proprio li Gesù sentirà di aver portato fino in fondo la sua missione d’amore e che li Dio lo accoglie fino in fondo.

Parlare del Battesimo di Gesù non può non interrogare la nostra esperienza di Battesimo.
Cosa vuol dire essere battezzati? Quali conseguenze ha per la nostra vita umana?
Abbiamo fatto un sacramento che ci porta fuori dal mondo? Ci salva dal peccato? E’ stato compiuto su di noi un rito tradizionale inevitabile per la nostra cultura?
Vedere Gesù che si immerge nell’umanità fino in fondo, senza paura di “sporcarsi le mani” con i peccatori e i lontani (verrà accusato di bestemmia e impurità e di trasgredire le regole religiose), mi ricorda che anche io sono “immerso” in lui e quindi nelle sue scelte e stile di vita.
Essere battezzato mi porta a vedere l’umanità come luogo dove sperimentare l’incontro con Dio. Non è fuggendo dal mondo e dai problemi della vita umana (che mi toccano e coinvolgono in prima persona) che posso dirmi cristiano, ma è proprio l’opposto. Incontro Cristo nell’uomo, negli uomini, proprio là dove vivono le relazioni, dove cercano un senso della vita, anche la dove sbagliano e cercano di rimettersi in piedi.
Non devo aver paura di “sporcarmi le mani” se vivendo la vita umana fino in fondo posso sbagliare e cadere in contraddizione. E’ fondamentale però che non spenga mai quella voce interiore di Dio che dice anche a me: “tu sei, Giovanni, figlio mio amato….”. E’ questa la differenza cristiana e la cosa che davvero mi rende come Cristo: la voce di Dio che mi invia e che mi assiste sempre, anche e soprattutto nei momenti più difficili e in salita.
Il Battesimo che ho ricevuto da piccolo, non è quindi solo un rito del passato, ma un’esperienza quotidiana di immersione della mia vita nella vita di Gesù, e nella sua comunità che è la Chiesa. Il Battesimo è immersione anche nel mondo intero, dove proprio lui ha scelto di immergersi per amore.

Giovanni don

Chi sei, Gesù?

Ogni anno, puntuale, all’inizio dell’anno pastorale nelle nostre parrocchie, chiusa la parentesi estiva, troviamo lo stesso vangelo: opportuno, insistente, destabilizzante. 
Non possiamo essere discepoli per abitudine, con stanchezza, lasciando passare anno dopo anno, dimorando nelle nostre consolidate e piccole condotte di vita cristiana: non ha dove posare il capo, il nostro Maestro, non vuole cristiani a traino, non gradisce finte devozioni. 
La domanda, allora, è posta in maniera diretta. 

Cafarnao 
I Dodici, gongolanti, hanno tra le mani un futuro di grande carriera politica e religiosa: Gesù piace, è credibile, ha successo, gratifica. Intorno al fuoco discutono, si animano, interagiscono. Gesù, defilato, li ascolta, sorride. Poi, come, se nulla fosse, pone la domanda. 
La gente chi dice che io sia?. 
Si parla molto di Gesù, ieri come oggi. 
Sui giornali, nei dibattiti, tra amici, Gesù è un mistero irrisolto, inquietante, difficile da decifrare. 
Chi è, veramente, Gesù di Nazareth? 
Le risposte le conosciamo: un grand’uomo, un uomo mite, un messaggero di pace, uno dei tanti uccisi dal potere. 
Tutto vero, ma ci si ferma qui; difficilmente si accetta la testimonianza della comunità dei suoi discepoli: Gesù è Cristo, Gesù è Dio stesso. 
È meglio mantenersi nel vago e rassicurante convincimento che Gesù sia una personalità della storia da ammirare ma che nulla ha a che vedere con la mia vita, meglio gestire il rapporto con Gesù riducendolo a memoria storica, invece che ammettere un’inquietante Presenza. 
Meglio dar retta alla teoria di moda per dire sempre e solo una cosa, da duemila anni: il Gesù vero non è quello (sconcertante) che vi hanno raccontato… 

Lascia stare gli altri 
Gesù non ci sta e, a bruciapelo, pone oggi a ciascuno di noi la domanda: Voi chi dite che io sia?. Già. E per me? Per me solo, dentro, senza l’assillo di dare risposte sensate o alla moda, senza la facciata e l’immagine da tenere in piedi? 
A me, nudo dentro, Gesù che dice? Quante risposte! 
Gesù diventa una speranza, una nostalgia, una tenerezza, la tenerezza del sogno dell”uomo che vorrebbe credere in un Dio vicino, che condivide, che partecipa. Oppure, attenti al rischio catechismo, abbiamo la risposta confezionata: “Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio”. 
Affermazione “corretta”, ma così lontana dal cuore! 
La folla lo aveva riconosciuto il Messia. Così i discepoli, così gli apostoli, così la comunità di Roma a cui Marco indirizza il suo Vangelo. 
Ma, in realtà? 

Simone e Pietro 
Simone osa, si lancia: tu sei il Messia. 
Risposta forte, esagerata, ardita: in nessun modo Gesù assomiglia al messia che la gente si aspetta, così comune, dimesso, arrendevole, misericordioso. Nulla. 
Gesù lo guarda, contento, e gli annuncia di essere Pietro, di essere una roccia, dentro di sé. 
Simone il pescatore riconosce in Gesù il Cristo. 
E Gesù, riconosciuto Cristo, gli restituisce il favore e gli svela che egli è una Pietra. 
Se ci avviciniamo a Gesù e lo riconosciamo Signore, subito riconosciamo chi siamo in noi stessi, chi siamo in verità. Dio svela l’uomo a se stesso, sempre. 

Cristo secondo Gesù 
Gesù subito presenta ciò che significa essere Cristo: donarsi fino alla morte. 
E qui si resta sgomenti, attoniti, scandalizzati. 
Ma come… e allora il Dio onnipotente, efficiente, che interviene a sanare le nostre malattie? Dov’è? Sicuramente c’è, ma dopo essere passato nella scandalosa logica della croce. 
Non dite che Gesù è Cristo se prima non siete saliti con Lui sulla croce. 
Non osate fare questa affermazione se prima non avete assaporato l’esagerazione e la sofferenza del dono, se prima la vostra vita non è stata arata e scavata dal solco della croce, amici, se prima non avete amato fino a star male, se il vostro cuore non è stato convertito dal dono della compassione. Questa croce che diventa misura del dono, giudizio sul mondo, unità di misura del nuovo sistema di amare il fratello. 
Anche Pietro e gli altri dovranno passare per il Golgota prima di entrare definitivamente nella dinamica del Regno. Isaia intuisce e profetizza questa nuova prospettiva di un Messia sofferente e Giacomo ci ricorda che la nostra fede non si ferma alle Parola ma diventa Gesto e che solo così testimoniamo di avere incontrato il Cristo Signore. 
Iniziamo così il nostro anno pastorale, il rientro all’attività autunnale: chiediamoci, ancora, chi è per noi, oggi, il Signore Gesù. 

(Paolo Curtaz)

 

La condivisione è il vero pane

La moltiplicazione dei pa­ni è un evento che si è impresso in modo inde­lebile nei discepoli, l’unico miracolo raccontato in tutti i vangeli. Più ancora che un mi­racolo, un segno: fessura di mi­stero, evento decisivo per comprendere Gesù. Lui ha pa­ne per tutti, è come se dices­se: io faccio vivere, io moltipli­co la vita! Lui fa vivere: con le sue mani che risanano i ma­­lati, con le parole che guari­scono il cuore, con il pane che significa tutto ciò che alimen­ta la vita dell’uomo Cinquemila uomini, e attorno è primavera; sul monte, nel luogo dove Dio è più vicino, hanno fame, fame di Dio. Qualcuno ha pani d’orzo, l’or­zo è il primo dei cereali che matura, simbolo di freschez­za e novità; piccola ricchezza di un ragazzo, anche lui una primizia d’uomo.

A Gesù nessuno chiede nulla, è lui che per primo si accorge e si preoccupa: «Dove potre­mo comprare il pane per lo­ro?». Alla sua generosità corrispon­de quella del ragazzo: nessu­no gli chiede nulla, ma lui mette tutto a disposizione. Primo miracolo. Invece di pensare: che cosa sono cinque pani per cinquemila persone? Sono meno di niente, inutile sprecarli. E la mia fame? Dà tutto quello che ha, senza pensare se sia molto o se sia poco. È tutto!

Per una misteriosa regola di­vina, quando il mio pane di­venta il nostro pane accade il miracolo. La fame finisce non quando mangi a sazietà, ma quando condividi fosse pure il poco che hai. C’è tanto di quel pane sulla terra che a condividerlo basterebbe per tutti. Il Vangelo neppure par­la di moltiplicazione ma di di­stribuzione, di un pane che non finisce. E mentre lo di­stribuivano il pane non veni­va a mancare, e mentre pas­sava di mano in mano restava in ogni mano. Come avven­gono certi miracoli non lo sapremo mai. Neanche per que­sto di oggi riusciamo a vedere il «come». Ci sono e basta. Quando a vincere è la genero­sità.

Giovanni riassume l’agire di Gesù in tre verbi «Prese il pa­ne, rese grazie e distribuì», che richiamano subito l’Eucari­stia, ma che possono fare del­l’intera mia vita un sacra­mento: prendere, rendere gra­zie, donare. Noi non siamo i padroni delle cose. Se ci con­sideriamo tali, profaniamo le cose: l’aria, l’acqua, la terra, il pane, tutto quello che incon­triamo, non è nostro, è vita da che viene in dono da altrove e va oltre noi. Chiede cura, co­me per il pane del miracolo (i dodici canestri di pezzi), le co­se hanno una sacralità, c’è u­na santità perfino nella mate­ria, perfino nelle briciole: niente deve andare perduto.

Impariamo ad accogliere e a benedire: gli uomini, il pane, Dio, la bellezza, la vita, e poi a condividere: accoglienza, be­nedizione, condivisione sa­ranno dentro di noi sorgenti di Vangelo. E di felicità.

(p. Ermes Ronchi)

Il riposo, quel sano gesto di umiltà

Cera tanta gente che non avevano neanche il tempo di mangiare. Gesù mostra u­na tenerezza come di madre nei confronti dei suoi disce­poli: Andiamo via, e riposa­tevi un po. Lo sguardo di Ge­sù va a cogliere la stanchez­za, gli smarrimenti, la fatica dei suoi. Per lui prima di tut­to viene la persona; non i risultati ottenuti ma larmo­nia, la salute profonda del cuore. E quando, sceso dalla barca vede la grande folla il suo primo sguardo si posa, come sempre nel Vangelo, sulla povertà degli uomini e non sulle loro azioni o sul lo­ro peccato. Più di ciò che fai a lui interessa ciò che sei: non chiede ai dodici di an­dare a pregare, di preparare nuove missioni, solo di pren­dersi un po di tempo tutto per loro, del tempo per vive­re. È un gesto damore, di u­no che vuole loro bene e li vuole felici. Scrive santAmbrogio: «Si vis omnia bene facere, aliquando ne feceris, se vuoi fare bene tutte le tue co­se, ogni tanto smetti di far­le», cioè riposati. Un sano at­to di umiltà, nella consape­volezza che non siamo noi a salvare il mondo, che le no­stre vite sono delicate e fra­gili, le energie limitate. Gesù insegna una duplice strategia: fare le cose come se tutto dipendesse da noi, con impegno e dedizione; e poi farle come se tutto di­pendesse da Dio, con legge­rezza e fiducia. Fare tutto ciò che sta in te, e poi lasciar fa­re tutto a Dio. Un particolare: venite in di­sparte, con me. Stare con Ge­sù, per imparare da lui il cuo­re di Dio. Ritornare poi nel­la folla, portando con sé un santuario di bellezza che so­lo Dio può accendere. Ma qualcosa cambia i program­mi: sceso dalla barca vide u­na grande folla ed ebbe compassione di loro. Prendiamo questa parola, bella come un miracolo, come filo condut­tore: la compassione. Gesù cambia i suoi programmi, ma non quelli dei suoi ami­ci. Rinuncia al suo riposo, non al loro. E ciò che offre al­la gente è per prima cosa la compassione, il provare do­lore per il dolore dellaltro; il moto del cuore che muove la mano a fare. Stai con Gesù, lo guardi agi­re, e lui ti offre il primo inse­gnamento: «come guarda­re», prima ancora di come parlare; uno sguardo che ab­bia commozione e tenerez­za, le parole e i gesti segui­ranno. Quando impari il sentimento divino della compassione, il mondo si in­nesta nella tua anima. Se an­cora cè chi si commuove per lultimo uomo, questo uomo avrà un futuro. Gesù sa che non è il dolore che annulla in noi la spe­ranza, non è il morire, ma lessere senza conforto. Fac­ciamo in modo di non pri­vare il mondo della nostra compassione, consapevoli che «ciò che possiamo fare è solo una goccia nellocea­no, ma è questa goccia che può dare significato a tutta la nostra vita» Teresa di Cal­cutta.

(p. Ermes Ronchi)

Io insieme a te. Con Lui di mezzo

Come spie di Dio. Esposti all’avventura per liberare il mondo dalla disperazione. Forse avrebbero preferito dormire nella barca per avere più frescura quella sera: il porpora del tramonto si stava trasformando in un rosso paonazzo quasi irreale, simile ad un foglio di carta gettato sul fuoco. Invece niente barca stanotte, bastano i mantelli in mezzo all’uliveto: li scalderà le Sue parole. “Ho bisogno di parlarvi. E’ tempo di parlare. Alzatevi andiamo, amici” Come un re che ha deciso la conquista del regno: prima indaga e avvicina le persone per sentirne l’idea – “chi dice la gente/voi che io sia?” -, poi la rielabora ed estende l’opera a degli avventurieri fidati per trasportarla in tutto il regno. Andare, conquistare, tornare (da Lui): la strategia di tutti i grandi generali della storia. “Siamo pronti a versare il sangue per te, condottiero. Iniziamo dal Tempio?”. C’è un nuvolone che copre l’occidente colorandolo e Pietro glielo fa capire. Gesù li guarda uno ad uno, ed è come guardare la stessa pagina per dodici volte e vederci sempre la stessa scritta: incomprensione. Sorride e prosegue. “Andate e predicate che il Regno dei Cieli è vicino”. E come bambini che non apprendono un mestiere se non sono allietati da un premio del maestro, perché loro possano essere creduti e appassionati concede il dono del miracolo: “scacciavano molti demoni, ungevano con olio infermi e li guarivano”. Scattanti, chi più chi meno, a seconda del temperamento. Solo l’Iscariota forse si pavoneggiò del dono del miracolo, con quel po’ d’interesse ambiguo nel cuore. Chissà, forse avrà pensato: “era ora che noi pure si facesse qualcosa per avere un minimo di autorità sulle turbe”.
Senza pane, senza bisaccia e senza monete nella cintura: solo con un pugno di parole nella gola da trattenere e da far uscire al momento opportuno. Le città li dovranno accogliere non perché sono Simone, o Giuda, o Bartolomeo, o Giacomo, o Giovanni o così via. Ma perché sono i messaggeri del Signore. Fossero stati anche dei rifiuti, degli assassini, dei ladri, dei pubblicani o dei pentiti meritano rispetto perché mandati da Lui. Cercheranno famiglia dove abitare e laddove non li ascolteranno di loro rimarrà la polvere sbattuta dai calzari. Liberi di inseguire il vento che spazzola le brughiere, liberi di cantare la dolcezza di un Maestro dalla Bellezza insopportabile. Li cacceranno e li derideranno, li inseguiranno e li offenderanno; e loro dovranno rispondere con la predica più bella, col silenzio mansueto di chi non è né così ingenuo da non capire né così arrogante da sopraffare. Un giorno quegli stessi avversari li cercheranno perché al Trafitto volgeranno lo sguardo: “Vi abbiamo cercato perché il vostro modo di fare ci ha persuasi della Verità che annunciate”. Ieri loro, oggi la Chiesa: nulla avremmo da dire sulla morale fino a quando coloro che ci ascoltano non avranno goduto di un barlume del piacere di Dio nelle nostre vite. Predicheranno a tutti, nessuno escluso, dovunque essi siano, in qualsiasi caos l’uomo si trovi: sarà quello il punto di partenza di qualsiasi viaggio alla scoperta di Lui
I discepoli come spie di Dio dentro la storia. La Grazia li renderà aggraziati e loro racconteranno la storia di Lui quando non ci sarà più nessuna storia da raccontare. Come Amos, umile raccoglitore di sicomori: non conta l’origine, vale più la destinazione alla quale Lui addita. Con un’avvertenza non trascurabile: non terranno né borsa, né bisaccia, né sandali. Ma un amico sì! Senza cose: ma non senza amici. A due a due busseranno alle porte del mondo. Perché quando l’uomo avrà fame un tozzo di pane lo raccatterà; quando l’uomo sarà stanco potrà trovare una spalla alla quale aggrapparsi.

Sono felice (che tu ti sia innamorato di P.) perché penso che in te ci sia sempre stata la tentazione del puritanesimo, una ristrettezza di vedute, una certa disumanità. Tendevi quasi verso la negazione della consacrazione della materia. Eri innamorato del Signore, ma non eri innamorato nel modo adeguato dell’Incarnazione. Avevi davvero paura… Avevi paura della vita, perché volevi essere un santo e perché sapevi di essere un artista. L’artista in te vedeva la bellezza ovunque; il santo in pectore in te diceva: “ma è terribilmente pericoloso”; il novizio in te diceva: “tieni gli occhi ben chiusi”; se P. non fosse entrata nella tua vita, saresti potuto scoppiare. Credo che P. salverà la tua vita. Dirò una messa di ringraziamento per quello che P. è stata e ha fatto per te. Avevi bisogno di P. da tanto tempo. I tiri al bersaglio contro i fantocci non sono una valvola di sfogo. E nemmeno i corpulenti anziani Provinciali. (…) Se tu pensassi che l’unica cosa da fare sia ritirarsi nella tua conchiglia, non vedresti quanto amorevole è stato Dio. Devi amare P. e cercare Dio in P. Godi dell’amicizia e paga il prezzo del dolore che ne segue, ricordala nella messa e lascia che sia Lui il terzo in questa amicizia. L’esordio dell’Amicizia spirituale (di Aelredo di Rievaulx):
“Eccoci, tu e io, e spero che fra noi Cristo sia il terzo”. 
(Lettera di Bede Jarrett a Dom Hubert in Letters of Bede Jarrett, Downside and Blackfriars, Bath 1989, p. 180)

Agli albori il cristianesimo non era una proposta per avventurieri condannati alla solitudine: forse lo è diventata in seguito, manipolando l’alfabeto iniziale. Perché un Dio che umili le piccole gioie dell’affetto è un Dio che non meriterebbe d’essere ascoltato.
Simone con Giovanni, Andrea con Matteo, Giacomo d’Alfeo con Tommaso: e via via tutti gli altri. Solo Giuda è un po’ triste, ma va bene così: meglio la tristezza di un sorriso falso. Di quei sorrisi forzati di un posto prenotato in Paradiso.

(Don Marco Pozza)

Siamo di scandalo per Gesù?

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In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
(dal Vangelo di Marco 6,1-6)

Gesù scandalizza i suoi paesani. In termini letterali scandalizzare significa “essere d’inciampo”.
Ed è questo l’effetto che Gesù fa’ dal punto di vista interiore e spirituale in coloro che lo conoscono fin da piccolo, e conoscono bene la sua famiglia.
Se sappiamo qualcosa sulla famiglia di Gesù e sul lavoro del padre Giuseppe è proprio da questo passaggio di Vangelo, che ci presenta Gesù nella propria terra natia. È proprio qui che Gesù ha uno dei suoi più grandi fallimenti dal punto di vista della predicazione e nell’operare miracoli.
E’ davvero molto potente la forza negativa del pregiudizio! Blocca persino Gesù e rende Dio impotente!
Forse anche noi con Gesù siamo meravigliati di questo fatto. E’ davvero incredibile che il grande Gesù, potente in parole e opere, sia bloccato e messo in angolo proprio dai suoi conoscenti.
Ma questa meraviglia non ci deve scusare e non ci deve “tirare fuori”.
Se c’è un posto dove Gesù è di casa è proprio la sua bimillenaria Chiesa. C’è da chiedersi veramente se anche nella sua casa di oggi, che siamo noi, Gesù non sia bloccato nelle parole e nelle opere.
Siamo veramente sicuri che con le nostre regole, consuetudini, tradizioni e consolidatissime strutture ecclesiali, in fondo non facciamo un po’ da zavorra alla sempre dirompente e profetica azione di Dio nella storia?
Qualche giorno fa un vecchio amico mi ha ricontattato per gli auguri di compleanno. Sapevo che il suo primo matrimonio era finito da tempo e che aveva iniziato una nuova relazione.
Mi ha chiesto se volevo rivederlo per presentarmi la sua nuova compagna. Ha anche aggiunto che aveva piacere di trovarci nella loro casa e se… volevo anche dare la benedizione alla casa.
Io ho risposto subito di si, senza troppo pensarci. Mi pareva un bell’invito amichevole e anche una richiesta molto bella dal punto di vista spirituale.
Questo amico è rimasto molto sorpreso dalla mia risposta affermativa. “Ma la Chiesa non condanna le coppie come noi?” mi ha subito chiesto. Io gli ho risposto che la Chiesa ha tantissimi insegnamenti, e che certamente sulla loro situazione ha una posizione chiara. Ma gli ho anche ricordato che la Chiesa parla anche di amore, misericordia, accoglienza e che non si rifiuta mai una preghiera se questa è richiesta con sincerità.
Rimango sorpreso anch’io di come la Chiesa sia spesso vista solo come fonte di condanne, divieti e limitazioni. E mi domando quanto noi stessi, che siamo parte viva della Chiesa, facciamo in modo che si pensi in modo diverso. Riprendendo le parole del Vangelo, penso che spesso siamo proprio noi come Chiesa ad essere di “scandalo” a chi vuole incontrare Gesù e sentirlo vicino, perché con i nostri schemi rigidi e le nostre parole fredde siamo a nostra volta di scandalo, cioè “di inciampo”, a Gesù che vuole entrare e operare nel cuore di tutti gli uomini, specialmente quelli più lontani.
Facciamo dunque in modo che Gesù, che nella sua Chiesa ha la sua casa di sempre, non si senta limitato come a Nazareth nell’operare i prodigi dell’amore, ma possa, anche attraverso la nostra collaborazione , guarire e illuminare i cuori… di tutti.

Giovanni don

La cura all’emorragia della fede

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In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
(dal Vangelo di Marco 5,21-43)

L’evangelista Marco intreccia fortemente queste due storie, quella della bambina moribonda e quella della donna malata di emorragia , con l’effetto di amplificare ancor di più il senso di sofferenza e angoscia che Gesù è chiamato ad affrontare.
Le sofferenze sono molte e di diverso tipo in queste due storie parallele.
C’è il dolore fisico della malattia per la bambina e anche per la donna. E nella loro sofferenza hanno in comune il numero 12: la bambina si ammala e muore proprio a 12 anni e la donna vive come morta con una sofferenza infinita lunga quanto l’età della fanciulla.
E la donna avendo questo flusso di sangue irregolare, secondo le rigide prescrizioni religiose dell’epoca, è un’impura, una maledetta da Dio. L’emorragia che la fa soffrire nel corpo, la fa anche soffrire nella vita sociale e religiosa. E anche la malattia della bambina crea sofferenza nella sua famiglia e soprattutto nei suoi genitori, gettandoli in quell’angoscia mista a impotenza che conosco bene anche i genitori di oggi quando hanno un loro figlio o figlia gravemente ammalati.
E a fare da contorno a queste situazioni di sofferenza fisica e morale, ci sta anche la difficoltà delle persone, anche vicinissime a Gesù, a capire la situazione e l’intervento di Dio.
Gesù è rimproverato dai suoi stessi discepoli, nel momento nel quale chiede chi lo ha toccato. I suoi amici infatti sono stupiti da questa domanda visto che è pressato dalla folla. Non comprendono infatti che Gesù ha una sensibilità che va oltre la superfice e coglie anche la più piccola richiesta di aiuto, anche quella nascosta della donna che li tocca il mantello.
E Gesù quando invita alla speranza, finisce addirittura deriso dalla folla che poco prima piangeva per la bambina. Le sue parole (“la bambina non è morta, ma dorme”) sembrano una follia agli orecchi di questa gente abituata a pensare che le cose vanno sempre nella stessa maniera, e che in fondo non c’è vera speranza in Dio.
Quella che sembra essere la maggiore difficoltà nelle guarigioni non sta tanto nella difficoltà della guarigione fisica in se stessa, ma sopratutto nella mancanza di speranza e nell’essersi subito arresi davanti alle difficoltà.
Marco ci racconta anche della fede coraggiosa della donna ammalata di emorragia e della fiducia incrollabile che tiene i genitori della fanciulla legati a Gesù.
La donna malata sfida regole e convenzioni perchè crede che anche il solo sfiorare Gesù la può finalmente guarire, restituendole non solo la salute fisica, ma anche quella sociale e religiosa. E Gesù riconoscerà questo coraggio, dicendo addirittura che è questa fede che l’ha guarita e non solo al potenza che sente uscire da se.
E Giairo e sua moglie, anche difronte alla più inequivocabile prova del fallimento delle loro preghiere, la morte della figlia, non abbandonano Gesù e la speranza che hanno in lui.

In questi giorni il papa ha decretato che padre Pino Puglisi sia proclamato beato, perché martire della fede.
Questo prete ha dato la sua vita, sfidando in modo aperto e coraggioso il cancro della mafia annidato profondamente nelle persone nel quartiere Brancaccio di Palermo, dove era stato mandato parroco.
Padre Pino ha creduto che il Vangelo è salvezza anche la dove non sembra esserci speranza e anche dove tanti hanno fallito nel tentativo di curare questo cancro (come i medici che inutilmente hanno cercato di guarire la donna del Vangelo…). E anche se la feroce malattia della mafia è arrivata ad ucciderlo (il 15 settembre 1993), la sua cura evangelica, fatta di speranza nei giovani e di impegno concreto per la pace, continua a guarire e ad allargare il suo benefico effetto.
Come prete e come cristiano non posso che essere toccato anche io da questa testimonianza vera e così viva. Tante volte anche io perdo la speranza e rischio di abituarmi alla sofferenza e alla visione pessimistica della vita. E posso addirittura arrivare a credere che in fondo le preghiere non sono ascoltate, e che non c’è vera speranza in Gesù.
E’ da questa emorragia della fede che voglio essere guarito.
E so che toccando con il cuore e la mente anche per un solo per un istante il Vangelo… vengo guarito e le paure e chiusure si risolvono.

Giovanni don