PER NON DIMENTICARE!

Dicevano che eravamo diretti ad un campo di lavoro; come avremmo potuto credere che dei bimbetti, dei neonati, dei malati servissero a questo scopo? Alle nostre domande non venivano date risposte plausibili; non era importante convincerci, era importante tenerci tranquilli perché non esplodesse il panico (…).

Eravamo stretti come sardine, più di cinquanta per vagone, ogni giorno più disperati, più rassegnati. Ricordo il ribrezzo per i primi pidocchi che ci trovammo addosso, le cimici intorno. Lo sferragliare del treno copriva i singhiozzi sommessi delle madri, non i pianti disperati dei bimbi. Avevano fame, avevano tanta sete, non avevano il minimo spazio per muoversi. Ricordo la  folle tentazione di fuggire che mi prese ad Ora, prima del Brennero, dove ci fecero scendere per qualche momento. Non osai. Cosa sarebbe successo agli altri, ammesso che vi fossi riuscita? Sì, perché secondo il codice nazista per ogni infrazione non pagava solo il colpevole ma quanti gli stavano intorno (…).

Il viaggio durò una settimana, la sera del 22 maggio arrivammo a Birkenau (…).

C’erano (…) anche le guardie SS con i cani lupo a controllare che tutto funzionasse e che la disciplina fosse rispettata. Quei cani erano addestrati apposta per azzannare e sbranare i trasgressori.
La mia squadra fu per un certo tempo adibita alla bonifica di terreni paludosi sulle rive della Vistola. Il luogo era a parecchi chilometri da Birkenau: vi andavamo a piedi, in fila per cinque e guai a chi non teneva il passo. Dovevamo prosciugare la zona acquitrinosa, svuotandola a palate dalla melma e riempiendola di ghiaia che altre prigioniere ricavavano macinando pietre in grosse trituratici azionate a mano.
Qualche settimana dopo ci mandarono più lontano, a molti chilometri di distanza da Birkenau. Ci portavano nei camion, dovevamo approntare strutture difensive per l’esercito del “grande Reich”, in vista del fronte russo che si stava avvicinando. Eravamo nell’agosto del 1944 ed era già in atto la ritirata tedesca. Scavavamo trincee, un lavoro pesantissimo che diventava di giorno in giorno più tremendo via via che le condizioni climatiche peggioravano. In Polonia l’autunno e poi l’inverno arrivano molto prima che da noi, per cui al freddo, sotto l’acqua, vestite di stracci, con le SS sul bordo della fossa a controllare che la pala fosse abbastanza piena, era un indescrivibile supplizio. Non ci pensavano due volte ad aizzarti contro il cane e quando succedeva, la malcapitata veniva riportata al campo a braccia e quasi mai sopravviveva. In lontananza vedevamo una bianca casetta di contadini. Sembrava un miraggio, gente vi entrava, gente ne usciva: era la vita. Dal camino saliva un lieve filo di fumo: immaginavi la pentola sulla stufa, la famiglia riunita intorno al desco. Ricordo quella casa come il più grande desiderio che io abbia mai avuto: potervi arrivare, nascondermi, scaldarmi al tepore di quella stufa, passarvi il resto dei miei giorni.
A mezzogiorno c’era una sosta e ci veniva dato un mestolo di zuppa di rape. C’è chi sorseggiava quella brodaglia lentamente per farla durare più a lungo e chi invece la trangugiava in fretta perché non resisteva un minuto di più. Chissà cosa avremmo fatto per averne un altro mezzo mestolo, tanta era la nostra insaziabile fame.

Testimonianza di Goti Bauer tratta da http://www.ucei.it/giornodellamemoria/index2.htm

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