La pace come cammino

A dire il vero non siamo molto abituati a
legare il termine PACE a concetti dinamici.
Raramente sentiamo dire:
“Quell’uomo si affatica in pace”,
“lotta in pace”,
“strappa la vita coi denti in pace”…

Più consuete, nel nostro linguaggio,
sono invece le espressioni:
“Sta seduto in pace”,
“sta leggendo in pace”,
“medita in pace” e,
ovviamente, “riposa in pace”.

La pace, insomma, ci richiama più la vestaglia
da camera che lo zaino del viandante.
Più il comfort del salotto che i pericoli della strada.
Più il caminetto che l’officina brulicante di problemi.
Più il silenzio del deserto che il traffico della metropoli.
Più la penombra raccolta di una chiesa che una riunione di sindacato.
Più il mistero della notte che i rumori del meriggio.

Occorre forse una rivoluzione di mentalità per capire
che la pace non è un dato, ma una conquista.
Non un bene di consumo, ma il prodotto di un impegno.
Non un nastro di partenza, ma uno striscione di arrivo.

La pace richiede lotta, sofferenza, tenacia.
Esige alti costi di incomprensione e di sacrificio.
Rifiuta la tentazione del godimento.
Non tollera atteggiamenti sedentari.
Non annulla la conflittualità.
Non ha molto da spartire con la banale “vita pacifica”.

Sì, la pace prima che traguardo, è cammino.
E, per giunta, cammino in salita.
Vuol dire allora che ha le sue tabelle di marcia e i suoi ritmi,
i suoi percorsi preferenziali ed i suoi tempi tecnici,
i suoi rallentamenti e le sue accelerazioni. Forse anche le sue soste.

Se è così, occorrono attese pazienti.
E sarà beato, perché operatore di pace,
non chi pretende di trovarsi all’arrivo senza essere mai partito, ma chi
parte.

Col miraggio di una sosta sempre gioiosamente intravista,
anche se mai – su questa terra s’intende – pienamente raggiunta.

(T. Bello)

Dare

Ogni uomo che ti cerca, viene per chiederti qualche cosa; 
il ricco annoiato, la dolcezza della tua conversazione; 
il povero, il tuo danaro; il triste, un po’ di consolazione; 
il debole, uno stimolo; colui che lotta, uno stimolo morale; 
l’ammalato, un vero sollievo. 
Ogni uomo viene per chiederti qualcosa. 
E tu, ti permetti di perdere la pazienza! 
Tu osi pensare: “Che fastidio!”. Che infelice! 
La legge nascosta che distribuisce misteriosamente 
le cose eccelse si è degnata di donarti 
il privilegio dei privilegi, il bene dei beni, 
la prerogativa delle prerogative: dare! 
Tu puoi dare! Per quante ore ha il giorno tu dai; 
benché sia un sorriso, benché sia una stretta di mano, 
benché sia una parola di sollievo. 
Per quante ore ha il giorno, tu rassomigli a Lui, 
che altro non è se non donazione perfetta, 
diffusione perfetta e regalo perpetuo. 
Dovresti inginocchiarti davanti al Padre e dirgli: 
“Grazie perché posso dare, Padre mio! 
Mai passerà sul mio volto l’ombra dell’impazienza!”. 
“In verità vi dico che vale più dare che ricevere!”.

(Anonimo)

Quando dai, aggiungi sempre

Quando dai, aggiungi sempre 
un po’ di te a ciò che dai: 
un pizzico della tua mente, 
un battito del tuo cuore, 
una vibrazione della tua anima. 
E avrai dato di più. 
Quando dai, 
fallo sempre col sorriso sulle labbra, 
aggiungici poi una manciata di gioia e d’allegria, 
e porgi il tutto con la mano dell’amore. 
E avrai dato di più. 
Quando dai non pensare di ricevere 
e riceverai tanto, e subito; 
la gioia di aver dato 
e la vittoria sul tuo egoismo. 
Se quando dai, 
dai anche te stesso darai di più, 
e riceverai di più.

(anonimo)

Il fiore all’anima

Due sono le cose necessarie all’uomo,
da non disprezzare mai,
beni propri della natura umana:
la salute e l’amico.

La salute è il fiore all’occhiello della vita fisica.
L’amico è il fiore all’anima innamorata
dell’intera esistenza.

(S. Agostino)

Preghiera di ogni giorno

Donaci, Signore, 
grandi ali per volare e piedi forti per camminare. 
Donaci un cuore grande che assomigli al tuo 
e sia capace di contenere l’universo. 
Donaci anche mani belle, tenere, delicate, 
pronte a toccare e a curare le ferite del mondo 
e ad accarezzare i volti e i cuori. 
La nostra vita non sia mai fine se stessa, 
ma abbia in sé il segno dell’eterno, 
di ciò che non finisce perché è prezioso ai tuoi occhi. 
E mentre ci chiami a camminare e a volare, 
insegnaci ad amare davvero, 
ad impegnarci a fondo per rendere più bella la terra 
e più felice chi ci sta accanto. 
Donaci il gusto di vivere per dar più colore al mondo, 
alle sue speranze e ai suoi sogni, 
se sono anche i tuoi, Signore. 
E grazie perché, avendoci fatti simili a te, 
ci dai la certezza che anche noi, con te, 
possiamo fare grandi cose!

(M.C. Carulli)

Irripetibili

Alcuni di noi sono come l’inchiostro, 
altri come la carta. 
E se non fosse 
per il nero di quelli, 
qualcuno tra noi sarebbe muto; 
e se non fosse per il bianco di questi, 
qualcuno tra noi sarebbe cieco. 
Se ci fossero due uomini uguali, 
il mondo 
non sarebbe grande abbastanza 
da contenerli.

(K. Gibran)

molto devoti ma poco credenti

nazareth oggi (colored)

 

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
(dal Vangelo di Luca 4,21-30)

“beh… bisogna ammettere che Gesù se le va proprio a cercare!”
Con questa battuta, don Gabriele, uno dei preti con i quali faccio la lettura e commento del Vangelo domenicale, ha sintetizzato la storia raccontata da Luca nel capitolo quarto del suo Vangelo.
Siamo ancora alle prime battute della predicazione di Gesù, dopo che l’evangelista si è dilungato a raccontarne l’infanzia. Dopo il racconto dell’esperienza del deserto con le tentazioni, Gesù ci viene presentato nella sua terra, a nord di Gerusalemme. Siamo nella Galilea e qui il Maestro radunerà i suoi discepoli e amici più stretti, opererà i primi segni miracolosi e predicherà alle folle. Sappiamo bene come finisce la storia. Sappiamo bene che alla fine del suo cammino Gesù si ritroverà a Gerusalemme, il centro religioso ebraico, e da li salirà il Calvario portando la sua croce sulla quale morirà, rifiutato dal popolo e persino dai suoi stessi amici che lo tradiranno.
Tornando ora al racconto di Nazareth, la città della sua famiglia e dove è cresciuto, Gesù sperimenta già da subito tutte le difficoltà della sua missione. Sembra proprio che ci sia qui un anticipo della sua fine. Infatti Luca ci racconta come Gesù dopo la sua predicazione, che stupisce e scandalizza, viene portato sul ciglio del monte di Nazareth (un anticipo dell’altura del Calvario?) e rischia la morte violenta, condannato dal popolo che non lo comprende.
Si scatena la violenza su Gesù e su di lui. Perché?
Non possiamo condannare troppo velocemente i nazaretani, perché se prestiamo bene attenzione alle parole che Gesù ha appena detto loro, qualche piccola giustificazione la possiamo trovare al loro comportamento. Gesù infatti ha appena detto loro che la salvezza di Dio si è manifestata più a degli stranieri infedeli che al popolo di Israele, colpevole di essere tanto religioso quanto freddo all’azione di Dio. La vedova straniera di Zarepta di Sidone e Naaman il siro, sono li ad “accusare” gli israeliti e a dire loro quanto sono chiusi all’azione di Dio.
Gesù è molto duro con i suoi compaesani, e non nasconde tutta la sua delusione nel constatare che sono molto devoti ma poco credenti. Sono li tutti i sabati ad ascoltare le antiche profezie e le promesse di Dio fatte agli antichi. Ascoltano e pregano con devozione e con la massima adesione ai precetti e tradizioni religiose, ma poi, quando viene qualcuno che dice loro con autorità che quelle profezie si avverano, rimangono freddi e si chiudono (“…erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?»”). Sono incapaci di fare il passo che porta dalla pratica religiosa alla fede. La paura li blocca nel mezzo. Quale paura hanno ?
E’ la paura di doversi davvero convertire. E’ la paura di scommettere fino in fondo la propria vita sulla Parola di Dio. E’ la paura di riconoscere che hanno zone d’ombra dentro di se che vanno illuminate e riconosciute. E’ la paura di fare i conti con i propri limiti e sbagli… E’ la paura di credere davvero che Dio è presente in mezzo a loro. Da dove si vede questa loro paura profondissima? Proprio dalla violenza che usano con Gesù. E’ una violenza prima di tutto verbale, che alza paletti e pre-giudizi (è solo il figlio del tale… chi si crede di essere??) e poi si trasforma in violenza fisica che vuole chiudere con l’eliminazione ogni altro possibile contatto e occasione di essere messi in discussione.

La descrizione finale che Luca fa del comportamento di Gesù (“…Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”) indica che nemmeno la paura e la violenza dei nazaretani può fermare il cammino di Gesù e del suo messaggio. Nemmeno la morte in croce sarà capace di fermare la Parola che cammina per le strade dell’umanità ancora oggi.
Venendo a me, a noi: ci riconosciamo un po’ nelle paure degli abitanti di Nazareth? Non è in fondo un po’ vero che siamo spesso più devoti che credenti? Avere a che fare anche ogni giorno con le cose “religiose” non ci evita il pericolo di fare molto ma crederci poco… Ed è anche per me l’avvertimento duro di Gesù che mi ricorda quanto spesso sono più i lontani ad accogliere l’amore di Dio che quelli che si considerano “di casa” con Lui.
Gesù che non viene fermato dalla violenza omicida dei suoi concittadini e che continua il suo cammino passando in mezzo loro, mi ricorda che la Parola di Dio (per fortuna!) non viene fermata da nulla e continua a passare in mezzo anche a violenze e paure. Nemmeno le freddezze dei cristiani e le loro incoerenze possono bloccare la forza rinnovatrice del Vangelo. Questo mi da’ speranza e mi fa venire la voglia di andare in cerca delle tante“vedove di Zarepta di Sidone” e dei vari “Naaman il siro” di oggi e con loro mettermi a disposizione di Dio, accogliendone l’azione rinnovatrice… Così sperimento anch’io la presenza di Gesù e ne divento testimone.

Giovanni don

Crea tutta la felicità

Crea tutta la felicità che riesci a creare;
rimuovi tutta la sofferenza che riesci a rimuovere.
Ogni giorno avrai la possibilità di aggiungere qualcosa alla felicità degli altri, o di alleviare in qualche modo le loro sofferenze.
E per ogni chicco di gioia che avrai seminato nel cuore di un’altra persona, troverai un’intera messe nel tuo;
mentre ogni dispiacere che avrai estirpato dai pensieri e dai sentimenti di un tuo simile,
verrà sostituita da un meraviglioso senso di pace e di gioia nel santuario della tua anima.
(Jeremy Bentham)

Il significato della vita

Un professore concluse la sua lezione con le parole di rito: “Ci sono domande?”. Uno studente gli chiese: “Professore, qual è il significato della vita?”. Qualcuno, tra i presenti che si apprestavano a uscire, rise. Il professore guardò a lungo lo studente, chiedendo con lo sguardo se era una domanda seria. Comprese che lo era. “Le risponderò” gli disse. Estrasse il portafoglio dalla tasca dei pantaloni, ne tirò fuori uno specchietto rotondo, non più grande di una moneta. Poi disse: “Ero bambino durante la guerra. Un giorno, sulla strada, vidi uno specchio andato in frantumi. Ne conservai il frammento più grande. Eccolo. Cominciai a giocarci e mi lasciai incantare dalla possibilità di dirigere la luce riflessa negli angoli bui dove il sole non brillava mai: buche profonde, crepacci, ripostigli. Conservai il piccolo specchio. Diventando uomo finii per capire che non era soltanto il gioco di un bambino, ma la metafora di quello che avrei potuto fare nella vita. Anchio sono il frammento di uno specchio che non conosco nella sua interezza. Con quello che ho, però, posso mandare la luce, la verità, la comprensione, la conoscenza, la bontà, la tenerezza nei bui recessi del cuore degli uomini e cambiare qualcosa in qualcuno. Forse altre persone vedranno e faranno altrettanto. In questo per me sta il significato della vita”.

(B. Ferrero)