Un Presepe senza confini

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Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
(dal Vangelo di Matteo 2,1-12)

La tradizione del presepe a casa mia c’è sempre stata. Quando mancava una decina di giorni a Natale si iniziavano a sistemare le semplici scenografie con la capanna, le casette, il ponticello e l’immancabile palazzo di Erode a Gerusalemme, aggiungendo poi il fondale e tutte le statuine. Ma non proprio tutte. Infatti la notte di Natale si aggiungeva Gesù bambino e in seguito quelle dei tre re magi.
Sono sempre stare queste ultime statuine le mie preferite, perché aggiungevano alla scena preparata qualcosa di movimentato e per me molto affascinante!
Infatti una volta sistemate le statuine e tutto il resto, nulla più veniva mosso e il presepe aveva un aspetto ovviamente molto statico, se non fosse per i giochi luminosi delle piccole luci decorative. L’unico movimento era proprio quello dei magi, che in maniera molto giocosa collocavamo fin dall’inizio, ma non nello spazio del presepe, ma fuori, con un movimento di avvicinamento progressivo e imprevedibile. Capitava di sistemarli su una porta in alto, oppure di trovarli più vicini ma in basso sul pavimento, oppure su un mobile, nascosti da un vaso. Ognuno di noi si divertiva a spostarli avvicinandoli pian piano alla scena, ma sempre fuori fino al 6 gennaio, quando sarebbero entrati e avrebbero avuto il posto più vicino a Gesù rispetto tutti gli altri personaggi.
L’evangelista Matteo ci racconta proprio così la nascita di Gesù. L’evangelista Luca ci presenta i pastori tra i primi ad accorrere dal bambino, avvertiti da un angelo, per poi ripartire a portare a tutti l’annuncio. Matteo sembra davvero “osare” di più, richiamando attorno alla Sacra Famiglia questi misteriosi personaggi che vengono da lontano e guidati da una stella e da un misterioso invito («Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo»)
Questi osservatori di stelle, mezzo astrologi e mezzo astronomi, la cui fede è misteriosa e di cui non si sa nulla se non che non sono del luogo, fanno un lungo viaggio mossi da un invito luminoso e estremamente attraente. Il loro cammino affronta molte difficoltà, non prima quella del lungo cammino mosso da pochi indizi e anche la difficoltà di una Gerusalemme tutto sommato ostile e di poco aiuto per loro.
Ma è la gioia “la benzina” che muove le loro gambe e non li scoraggia, ed è una gioia che non calerà anche di fronte ad un re dei giudei tutto sommato inaspettato rispetto alle aspettative di come dovrebbe essere un re. E finita la loro visita ripartono ancor più decisi e ispirati non più da una stella ma da un sogno rivelatore, che nella bibbia è segno della voce di Dio che parla al cuore. Sono cresciuti anche nella fede e nella conoscenza di Dio che ora parla loro in modo più chiaro e intimo.
E’ davvero affascinante questo loro venire da lontano, fuori dagli schemi e imprevisti (e imprevedibili). La scena del Natale con questi magi ci racconta fin da subito che l’evento Gesù non si ferma a pochi eletti, ma fa diventare ogni essere umano eletto davanti a Dio e protagonista della sua storia di Salvezza.
Per il Vangelo la scena del presepe quindi si espande e coinvolge tutta la terra, ogni essere umano, da qualsiasi periferia del mondo e dell’esperienza umana provenga.
Quando facevamo il presepe a casa, appena concluse le feste natalizie, smontavamo tutto rimettendo scenografie e statuine nelle scatole fino al Natale successivo. Il gioco del progressivo avvicinamento dei magi non veniva fatto anche per la loro partenza e viaggio di ritorno (come è raccontato nel Vangelo), ma pensandoci sarebbe stato bello farlo, per completare il messaggio dell’Epifania, cioè della Manifestazione del Signore a tutti i popoli.
Ma se i presepi di gesso, legno o plastica rimangono un bel segno smontabile a fine feste, il messaggio di un presepe che non ha più barrire e che si espande fino agli estremi confini della terra lo possiamo tenere installato per sempre nel nostro cuore e nello stile della nostra vita di fede e comunitaria.

Giovanni don

 

Ha preso carne. Finalmente

Scelse la carne ch’era il punto di massima lontananza dal Cielo: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14). Non fu per spavalda provocazione ma per la più intima delle affinità: scegliere ciò ch’era debole per confondere i forti, sposare il lontano per farlo sentire vicino, inabissarsi nell’uomo perché il Cielo penetrasse la terra. Fu l’inaudito di Betlemme, la casa del pane e della carne di Dio. Pane e carne, pane e pesce, pane e acqua: ci sarà sempre un pane a disposizione per chi, sazio di tutto, avvertirà nel cuore la fame e la sete dell’essenziale: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (1,4). Capiterà l’assurdo, come in principio capitò l’inaudito: capiterà che gli uomini alla luce preferiscano le tenebre. C’è sempre qualcuno che scambia il sole per un punti giallo: i Vangeli questo lo mettono in conto. Lo calcolano e ne anticipano le conseguenze: «A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio» (1,12).

Carne si fece: null’altro e nessun altro potrà più osare di oltrepassarlo. Nella carne nascose la festa dei sensi: ascoltare quella carne sarà ascoltare Lui. E ascoltarlo sarà una festa. La festa degli occhi, di «quello che abbiamo veduto con i nostri occhi» (1Gv 1,1). Era il sogno di Mosè, che un giorno non si trattenne e diede voce a quel desiderio: «Ti prego, fammi vedere la tua gloria!». Ottenne un secco diniego, pur con una motivazione in calce: «Tu non puoi vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere» (Es 33,18-20). Seppur di provenienza divina, quel no non impedì all’uomo di coltivare ad oltranza una mal e mai celata nostalgia del Suo sguardo: «I miei occhi sono sempre rivolti al Signore» (Salmi 25,15). Ciò che Mosè non potè, apparve di sorpresa a dei suoi discendenti per mestiere, anch’essi pastori: «Andiamo (…) vediamo questo avvenimento» (Lc 2,15). Videro e si stupirono. Credettero.

Divenne la festa delle orecchie, «quello che noi abbiano udito» (1Gv 1,1). A chi si fiderà dell’udito, capiterà di vedersi cambiata la vita. Di veder tramutare una notte infruttuosa di pesca in un mattino copioso di pesci. Il segreto – anche per pescatori d’arte e di mari – sarà quello di ascoltare la direzione nella quale butta quella voce: sempre nel lato giusto, quello che pare sempre il più insensato. Quello favorevole a farsi ridere dietro dalla gente seduta a riva. Le reti, però, seguiranno la parola: «Sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,5). La parola, dal canto suo, accrediterà esattamente quanto aveva fatto udire: «Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano» (5,6). Che è poi la festa del tatto: «quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita» (1Gv 1,1). Del Dio che si fa contatto: intimità, tocco, ritocco, rintocco. Toccherà sempre la Divinità: saranno gioie e guai ad intervalli più o meno regolari. Batoste e incoraggiamenti: il suo tocco farà fumare i monti come sprofondare le terre, chiuderà e aprirà le bocche, costruirà e rimetterà mano alle sue costruzioni per restaurarle. Coprirà vallate di ossa cucendo addosso la carne, strapperà dalle grinfie del leone la vita come carezzerà sguardi resi ciechi ad oltranza. Con le mani in pasta: un Dio artigiano e vasaio, costruttore e manovale, pescatore e carpentiere. Con mani di padre, di madre e di Dio. Di preferenza scelse mestieri all’aria aperta: quelli che, a forza di tocchi e spinte, fanno nascere i calli, sformano le dita, anneriscono le unghie. Un Dio toccante: che tocca, emozionante. Lo crocifiggeranno un giorno. Lui risponderà a modo suo, risorgendo: la festa del gusto e dell’olfatto. Della memoria e del piacere. Di ciò che sino ad allora era follia anche solo a pensarci. Di ciò che rimase, al netto di ogni rifiuto: «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,5).

Ancor oggi il mondo, quando Lo incrocia, lo lascia passare: il mondo intero si ferma quando incontra un uomo che sa dove andare. Per questo taluni Gli danno sempre la preferenza: non certo per pudore o buona educazione. Semplicemente per paura: paura di dover fare i conti con la sua Luce.

(D. Marco Pozza)

La strada in salita

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In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».

A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».

Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».

Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

(dal Vangelo di Luca 1,26-38)

 

Per scendere tra gli uomini, Dio ha scelto una strada tutta in salita. Ma si è rivelata la strada migliore, quella preferita da Dio.

Già Nell’annunciazione narrata da Luca vediamo le scelte difficili e originali che Dio ha fatto, e che possono essere una luce anche per le nostre scelte di fede e di vita.

Prima di tutto la “location” dell’evento che vede l’ingresso fisico di Dio dentro al storia umana: Nazareth di Galilea.

Nazareth tra tutte le città e villaggi che ci sono nella Bibbia non è mai citata, perché in fondo è solo un villaggio piccolo e povero, con le case mezze scavate nella roccia; e per di più si trova in Galilea, cioè nella regione a nord di Gerusalemme, che non gode certo di una bella fama tra gli ortodossi della tradizione religiosa ebraica. E’ un luogo di confine con altre popolazioni, culture e religioni, con tutti i rischi di contaminazione religiosa e tensione sociale. I galilei infatti sono visti come popolazione mediamente rissosa e turbolenta. Gesù da adulto infatti verrà visto in modo negativo dal potere religioso centrale proprio per la sua provenienza (nel Vangelo di Giovanni 1,46 si legge: “Natanaele gli disse: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?»”)

Ecco la prima “salita” che sceglie Dio per scendere nell’umanità.

Ma anche la seconda non è da poco per chi conosce bene la storia biblica e i suoi personaggi.

Maria è il nome di colei che è scelta per diventare madre del Figlio di Dio. Questo nome che a noi suona tanto bello e pieno di dolcezza legata proprio alla Madonna, in realtà nella storia biblica è associato a sfortuna e punizione da parte di Dio, avendo questo nome proprio la sorella di Mosè, punita da Dio con la lebbra. Mai nella Bibbia il nome Maria è associato a personaggi positivi e testimoni di Dio.

Dio sceglie proprio questa donna dal nome sfortunato, in un luogo malfamato ai confini del mondo e in un villaggio senza fama religiosa, e le consegna una vocazione piena di rotture con il passato, a cominciare proprio dal nome del nascituro che sarà imposto da lei e non dal padre, come vorrebbe la tradizione (“lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù”).

Ecco la difficile strada scelta da Dio, che però ha intravisto proprio in questa strada la via giusta per arrivare all’umanità. Infatti Maria di Nazareth in Galilea accetta la sua missione sentendosi serva di Dio, cioè capace di fare la sua parte nella strada della Salvezza, che incrocia proprio la sua piccola strada umana invece di passare dalla strada più ovvia di Gerusalemme il grande centro religioso della Giudea, pieno di uomini pii (i farisei) ed esperti della religione (i scribi).

Gesù nasce in salita, proprio come sono le nostre storie personali le storie di molti accanto a noi, piene cioè di contraddizioni e di piccole e grandi incoerenze.

L’annunciazione così come viene raccontata è davvero la rivelazione dell’immenso amore che Dio ha per l’umanità e la profonda fiducia che Lui ha anche per quello che umanamente sembra perduto e inutile.

Il racconto dell’incontro dell’Angelo Gabriele (che in ebraico significa Forza di Dio) con Maria è un invito ad avere anche noi questa fiducia di Dio, verso noi stessi e verso il mondo che ci circonda, che sembra così vuoto di Dio e lontano. Dio continua a scegliere la Galilea, cioè i confini dell’umanità, per dialogare e per cercare collaborazione per il suo piano di salvezza. Cerca anche me e anche te, e anche colui e colei che accanto a noi due ha desiderio di fare qualcosa per il mondo, ed essere segno di speranza.

“Nulla è impossibile a Dio”, dice l’Angelo a Maria. Lo suggerisce anche al mio cuore, e al cuore di tutti noi che hanno il nostro stesso compito di essere testimoni di Dio in questa Galilea del mondo dove viviamo.

E come ha fatto Maria, questa donna apparentemente insignificante, anche noi possiamo dire “Eccomi!”… Ci sono anche io, posso farcela… Dio, conta anche sul mio aiuto su questa strada in salita che hai scelto per venire accanto a ogni uomo.

Giovanni don

Siamo tutti uomini e donne di Dio

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Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa».
Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».
Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.
(dal Vangelo di Giovanni 1,6-8.19-28)

Uomini di Dio…
Con questo titolo nel 2010 esce un film che narra la vicenda dei monaci francesi del monastero di Tibhirine (Algeria) assassinati nel marzo del 1996, durante gli anni di lotta sanguinosa che ha caratterizzato l’Algeria negli anni 90 tra moderati e fondamentalisti islamici.
I sette monaci erano consapevoli del pericolo che cresceva attorno al monastero, ma nonostante gli inviti ad andarsene, rimasero accanto alla popolazione locale come aiuto concreto e segno di speranza.
Giovanni Battista ci è presentato come uomo di Dio, mandato da lui per dare testimonianza di luce, in un contesto storico e religioso caratterizzato allora dalle tenebre e dalla lontananza da Dio.
Nel racconto che fa l’evangelista, le tenebre si presentano sotto forma di inviati da parte delle autorità religiose del tempo che vengono ad interrogare questo personaggio che predica la conversione e pratica un battesimo di purificazione. Dicono di volerlo interrogare ma in realtà è chiaro che vogliono spegnere quel primo segnale di luce che si sta accendendo e che sarà pieno con Gesù.
Giovanni è un uomo mandato da Dio e non mandato da se stesso o da qualche potere umano forte con interessi politici od economici.
Il compito di Giovanni è accendere speranza e indicare quando, come e dove dirigersi per poter conoscere quella luce interiore e storica che è Gesù. E la sua missione è subito messa a confronto con gli ostacoli e le difficoltà che vengono proprio da dove invece ci si aspetterebbe in contrario, cioè dalle autorità religiose che avevano anch’esse il compito di indicare la via di Dio, ma in realtà non la conoscono e non permettono ad altri di cercarla e percorrerla. Giovanni infatti dice proprio a questi farisei e leviti “in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete…”
Siamo vicini al Natale, festa che anche in tempo di crisi è caratterizzata da molte luminarie e luci artificiali per le strade e in casa. Anche nelle chiese le quattro lampade dell’Avvento si accendono sempre più man mano che ci si avvicina alla solennità del 25 dicembre.
Davanti a tutti questi segni materiali di luce, ci dobbiamo domandare se siamo pronti ad accogliere la luce vera che è Gesù. Siamo pronti a riconoscerlo presente e luminoso oppure siamo dalla parte delle tenebre, come i farisei e leviti del tempo di Giovanni Battista?
Siamo disposti ad essere anche noi testimoni di luce mandati da Dio come lo è stato Giovanni Battista e come lo sono stati innumerevoli testimoni dopo di lui, come anche i monaci di Tibhirine?
Le tenebre sono davvero tante anche oggi, con i fatti di cronaca che parlano di violenza e morte, con il degrado della vita politica, con la mancanza di speranza nel futuro per giovani e famiglie senza lavoro, con la violenza degli integralismi religiosi e con la violenza delle armi che invece di spegnere la violenza sembrano attizzarla sempre di più. Ci sono tenebre dentro le nostre famiglie quando c’è divisione, non ascolto, non sostegno nelle difficoltà. Ci sono tenebre anche nella comunità cristiana, quando non c’è vera comunione e tutta l’esperienza religiosa si riduce a qualche tradizione esteriore che non cambia la vita…
Le tenebre sono potenti, ma Dio continua a mandare suoi inviati per dare testimonianza alla luce, a Gesù. E questi uomini di Dio siamo tutti noi, specialmente noi battezzati nel nome di Gesù.
Dal momento che simbolicamente abbiamo acceso, o qualcuno ha acceso per noi, quella piccola candela il giorno del battesimo, con quelle semplici parole “ricevi la luce di Cristo…”, siamo stati inviati a non tenerla nel cassetto, ma a portarla al mondo e specialmente dove c’è più oscurità e notte.

« Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese… Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato. »
(Dal Testamento spirituale del Padre Christian de Chergé, monaco assassinato a Tibhirine nel 1996)

Nella Chiesa nessuno è straniero

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In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.

Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.

Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.

Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.

E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna

(dal Vangelo di Matteo 25,31-46)

 

Una volta un bambino mi ha posto una domanda più o meno con queste parole: “Gesù dopo che è morto è andato in paradiso perché era tanto buono e aiutava tutti?”

La domanda è proprio da bambini, ma se ci pensiamo bene non è poi così banale perché mi costringe a pensare profondamente l’identità di Gesù, la sua vita e l’insegnamento che vien fuori dal suo agire.

La pagina che leggiamo questa domenica è il racconto dell’ultimo grande discorso di Gesù prima di entrare nel racconto della sua morte e resurrezione: è il riassunto e il senso profondo di tutta la sua esistenza, e dopo queste parole affronta il capitolo più intenso di tutta la sua vita.

Gesù parla di un giudizio finale e come sempre, mentre dà insegnamenti ai suoi discepoli, rivela molto anche di se stesso.

Chi è Gesù se non colui che ha fatto di tutto per mettersi dalla parte degli ultimi, dei più piccoli, dalla parte dell’affamato, dell’assetato, del povero, dello straniero e del malato? Gesù ha scelto di compromettersi totalmente con gli ultimi, anche a costo di essere frainteso e giudicato male persino dai suoi amici. Nella sua vita si scontra con le autorità religiose che più volte lo considerano un impuro e indegno perché sta con i peccatori e le prostitute, tocca e si fa toccare dai malati, e proviene dalla Galilea che è ai confini e lontana dal centro ortodosso della fede che è Gerusalemme. Il Maestro scandalizza anche i suoi discepoli quando mette al centro i bambini, come metro di misura su chi è veramente grande nel Regno di Dio.

Gesù è davvero l’Emmanuele, cioè il Dio-con-noi, dentro la realtà umana anche nelle sue pieghe più umili e limitate. Ogni volta che anche io mi immedesimo nel piccolo e povero, e ogni volta che mi prendo carico delle sue sofferenze, sono dalla parte di Gesù che ha fatto la stessa cosa, ed è addirittura dentro quel piccolo e povero.

Tra le varie opere di misericordia che la pagina del Vangelo elenca ce n’è una di estrema attualità ed è assai provocante per noi cristiani di oggi: “ero straniero e mi avete accolto”

 

La nostra Diocesi di Verona ha elaborato un documento che nel panorama delle Diocesi italiane rimane un po’ unico e davvero esemplare. Si tratta del lavoro che una equipe di preti e laici ha elaborato sulla questione del rapporto tra immigrati e comunità cristiane. Il titolo scelto è davvero riassuntivo e illuminante “Nella mia parrocchia nessuno è straniero”.

Nel lavoro fatto si sono evidenziati i percorsi possibili di una pastorale che veda gli stranieri, sempre più numerosi nel nostro contesto sociale, non solo come realtà da servire in modo distaccato e lontano, ma come persone da includere sempre più come parte della comunità cristiana stessa. Se davvero crediamo che nello straniero accolto, accogliamo Gesù (“ero straniero e mi avete accolto”) allora non possiamo certo trattare Gesù da estraneo, lui che è fondamento della nostra esperienza di fede e di comunità.

Sono tante le tensioni che attraversano la nostra nazione e le nostre realtà locali riguardo il rapporto con gli stranieri e il carico di problemi che si creano, mischiati alle problematiche della crisi economica che si fa sempre più profonda. La risposta del cristiano parte decisamente dal Vangelo che non può rimanere relegato sull’ambone in chiesa, ma deve tradursi in scelte e atteggiamenti condivisi da tutti.

Certo non è facile e non bastano due iniziative di carità per risolvere la questione. Bisogna prima di tutto ricordarci chi siamo e quale stile aveva Gesù Cristo, di cui portiamo il nome.

Lui, straniero per eccellenza, è si è fatto cittadino del mondo e chiamava fratelli tutti gli esseri umani.

Così la comunità cristiana sceglie di far sì che chiunque, italiano e non, comunitario o extra-comunitario, cristiano o non, non si senta mai straniero e non trovi mai confini e dogane umane a respingerlo.

Riprendendo la domanda che mi era stata posta dal bambino, posso proprio dire che Gesù davvero è andato in paradiso perché dal paradiso era sceso per mostrare la bontà di Dio e l’amore verso tutti.

Giovanni don

La scuola della croce: amare non è emozione ma dare

Festa dell’Esaltazione della Croce, in cui il cristiano tiene insieme le due facce dell’unica evento: la Croce e la Pasqua, la croce del Risorto con tutte le sue piaghe, la risurrezione del Crocifisso con tutta la sua luce. Parafrasando Kant: «La cro­ce senza la risurrezione è cieca; la risurre­zione senza la croce è vuota».

Dio ha tanto amato. È questo il cuore ar­dente del cristianesimo, la sintesi della fe­de: «Dove sta la tua sintesi lì sta anche il tuo cuore» Evangelii Gaudium 143. «Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio. Siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama» L. Xardel.

La salvezza è che Lui mi ama, non che io amo Lui. L’unica vera ere­sia cristiana è l’indifferenza, perfetto con­trario dell’amore. Ciò che sventa anche le trame più forti della storia di Dio è solo l’in­differenza.Invece «amare tanto» è cosa da Dio, e da ve­ri figli di Dio. E penso che ogni volta che u­na creatura ama tanto, in quel momento sta facendo una cosa divina, in quel mo­mento è generata figlia di Dio, incarnazio­ne del suo progetto.Ha tanto amato il mondo: parole da ripe­tere all’infinito, monotonia divina da inci­dere sulla carne del cuore, da custodire co­me leit-motiv, ritornello che contiene l’es­senziale, ogni volta che un dubbio torna a stendere il suo velo sul cuore.

Ha tanto amato il mondo da dare: amare non è una emozione, comporta un dare, ge­nerosamente, illogicamente, dissennata­mente dare. E Dio non può dare nulla di me­no di se stesso Meister Eckart.Dio non ha mandato il Figlio per condan­nare il mondo, ma perché il mondo sia sal­vato per mezzo di lui. Mondo salvato, non condannato.

Ogni vol­ta che temiamo condanne, per noi stessi per le ombre che ci portiamo dietro, siamo pa­gani, non abbiamo capito niente della cro­ce. Ogni volta invece che siamo noi a lan­ciare condanne, ritorniamo pagani, scivo­liamo fuori, via dalla storia di Dio.Mondo salvato, con tutto ciò che è vivo in esso. Salvare vuol dire conservare, e niente andrà perduto: nessun gesto d’amore, nes­sun coraggio, nessuna forte perseveranza, nessun volto. Neppure il più piccolo filo d’er­ba.

Perché è tutta la creazione che doman­da, che geme nelle doglie della salvezza.Perché chiunque crede in lui non vada per­duto, ma abbia la vita eterna. Credere a questo Dio, entrare in questa dinamica, la­sciare che lui entri in noi, entrare nello spa­zio divino «dell’amare tanto», dare fiducia, fidarsi dell’amore come forma di Dio e for­ma del vivere, vuol dire avere la vita eterna, fare le cose che Dio fa’, cose che meritano di non morire, che appartengono alle fibre più intime di Dio. Chi fa questo ha già ora, al presente, la vita eterna, una vita piena, rea­lizza pienamente la sua esistenza.

(p. Ermes Ronchi)

Regno dei cieli, tesoro e rivoluzione di vita

Tesoro: parola magica, parola da in­namorati, da avventure, da favole, ma anche da Vangelo, uno dei nomi più belli di Dio.

Il regno dei cieli è simile a un tesoro. Acca­de per il regno ciò che accade a chi trova un tesoro o una perla: un capovolgimen­to, un ribaltone totale e gioioso che travol­ge l’esistenza. Un tesoro non è pane quo­tidiano, è rivoluzione della vita.

Ebbene, anche in giorni disillusi e scon­tenti, i nostri, il Vangelo osa annunciare te­sori. Osa dire che l’esito della storia sarà felice, comunque felice, nonostante tutto felice. Perché nel mondo sono in gioco for­ze più grandi di noi, che non verranno me­no, alle quali possiamo sempre attingere, dono non meritato. Il regno è di Dio, ma è per l’uomo.

Un uomo trova un tesoro e pieno di gioia va. La gioia è il primo tesoro che il tesoro regala. Che il Vangelo regala. Entrarvi «è come entrare in un fiume di gioia» (papa Francesco), respirare un’aria fresca e ca­rica di pollini. Dio instaura con noi la pedagogia della gioia! Nel libro del Siracide è riportato un testo sorprendente: Figlio, per quanto ti è possibile, trattati bene… Non privarti di un solo giorno felice (Sir 14.11.14). È l’invito affettuoso del Padre ai suoi figli, il volto di un Dio attraente, bello, solare, il cui o­biettivo non è essere finalmente obbedi­to o pregato da questi figli sempre ribelli che noi siamo, ma che adopera tutta la sua pedagogia per crescere figli felici. Co­me ogni padre e madre. Figlio non pri­varti di un giorno felice! Prima che chie­dere preghiere, Dio offre tesori. E il van­gelo ne possiede la mappa.

Quell’uomo va e vende quello che ha. Il contadino e il mercante vendono tutto, ma per guadagnare tutto. Niente viene butta­to via, non perdono niente, lo investono. Fanno un affare. Così sono i cristiani: scel­gono e scegliendo bene guadagnano. Non sono più buoni degli altri, ma più ricchi: hanno un tesoro di speranze, di coraggio, di libertà, di cuore, di Dio. «Cresce in me la convinzione di portare un tesoro d’oro fi­no che devo consegnare agli altri» (S. Weil).

Tesoro e perla sono i nomi che dà al suo a­more chi è innamorato. Con la carica di af­fetto e di gioia, con la travolgente energia, con il futuro che sprigiona. Due nomi di Dio, per Gesù. Il Vangelo mi incalza: Dio per te è un tesoro o soltanto una fatica? È perla della tua vita o solo un dovere?

Mi sento contadino fortunato, mercante ricco perché conosco il piacere di credere, il piacere di amare Dio: una festa del cuo­re, della mente, dell’anima.

Non è un vanto, ma una responsabilità! E dico grazie a Chi che mi ha fatto in­ciampare in un tesoro, in molte perle, lungo molte strade, in molto giorni della mia vita.

(E. Ronchi)

Il potente seme della Parola di Dio

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Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia.
Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».
Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.
Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice:
“Udrete, sì, ma non comprenderete,
guarderete, sì, ma non vedrete.
Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,
sono diventati duri di orecchi
e hanno chiuso gli occhi,
perché non vedano con gli occhi,
non ascoltino con gli orecchi
e non comprendano con il cuore
e non si convertano e io li guarisca!”.
Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».
(dal Vangelo di Matteo 13,1-23)

Penso davvero che la celebrazione della Messa domenicale è lo specchio della vita reale dell’intera comunità cristiana e del singolo cristiano. Da come una comunità cristiana vive l’appuntamento domenicale si può capire come vive la vita cristiana ogni giorno, tutti quanti, prete compreso.
Dalla mia posizione alta sull’altare osservo quel che accade giù dai gradini, e mi piace osservare l’atteggiamento della comunità nel suo complesso e anche i singoli. Il mio non è uno sguardo intento a giudicare, ma solo un punto di osservazione per meglio conoscere e comprendere chi ho davanti e domandarmi, come prete che presiede il rito, cosa fare perché la Messa sia più possibile vissuta bene e con frutto. Ovviamente osservo anche me stesso e mi accorgo che non ho davvero nessun diritto di giudicare nessuno, perché anche io sono alla fin fine sotto lo sguardo di Dio Padre che vede e ama tutti allo stesso modo.
Uno dei momenti più importanti della Messa è proprio quello dell’ascolto della Parola di Dio, nella prima parte della celebrazione. Mi domando spesso in che modo questa Parola viene ascoltata e come io la ascolto. Non è una semplice lettura di testi antichi, ma in quel momento, proprio perché dentro un momento di preghiera, è l’ascolto di Dio che parla e vuole seminare nel nostro cuore la sua Parola di vita.
E’ proprio come la semina di cui parla Gesù nel Vangelo, e Matteo l’evangelista, ricorda questo paragone che il maestro ha usato per parlare di se e dei suoi insegnamenti donati ai singoli apostoli e al popolo intero.
La Parola di Dio è un seme potente, potentissimo e ricco di vitalità. Se un seme di grano al tempo di Gesù poteva al massimo produrre altri trenta chicchi, quello che Dio semina nel nostro cuore, e che passa necessariamente dall’orecchio di chi ascolta o dall’occhio di chi legge, è capace di produrre fino a cento volte tanto e il trenta è il minimo!
Questa è la Parola che ogni domenica, attraverso la voce dei lettori e del prete, viene seminata nell’assemblea radunata.
La domanda che mi pongo osservando l’assemblea è proprio questa: siamo tutti consapevoli di questa potenza? Crediamo realmente che quelle parole antiche che emergono dalla Bibbia letta a brani diversi ogni domenica, hanno la capacità di cambiare il mondo e di portare un frutto straordinario di vita?
Spesso osservo che molti, arrivando in costante ritardo, si perdono parte della semina domenicale della Parola, oppure sedendosi distratti nel banco innescano lo “stand-by” delle orecchie e della mente, e la Parola rimbalza via dalla testa. E’ anche vero che spesso la Parola viene letta in modo non adeguato e questo non aiuta l’ascolto, e tutto ciò non aiuta la semina domenicale da parte di Dio che vuole comunicare con noi. Anch’io a volte mi accorgo di essere distratto e con il pensiero altrove, e oltre a non dare un buon esempio di ascolto, mi perdo pure quello speciale momento di incontro con Dio che non è meno importante e intenso della Consacrazione del pane e vino sull’altare.
Come premesso, non sono qui a giudicare, ma a richiamare prima di tutto me stesso a questa favolosa e insostituibile potenza della Parola di Dio, che Gesù getta in continuazione anche quando non è ascoltato e rifiutato. Come comunità cristiana, siamo chiamati pure noi a non smettere di seminare la Parola nella Chiesa e attorno a noi, con le parole e con la vita.
Infatti seminare la Parola non significa solo leggere e divulgare il testo scritto della Bibbia, ma far sì che la nostra vita, con i nostri gesti e parole, racconti quella Parola che Dio ha prima di tutto seminato in noi.
La Parola di Dio ogni domenica è seminata nella comunità, in noi, anche quando siamo terreno arido, anche quando siamo soffocati da preoccupazioni o poco profondi. La Parola di Dio viene seminata perché in tutti, anche il più distratto, esiste almeno un po’ di terreno buono, e li, prima o poi, quella Parola potente produrrà molto frutto!

Giovanni don

Diffondere la combattiva tenerezza di Dio

Picture16[1]Ti rendo lode, Padre… il Vangelo re­gistra uno di quegli slanci im­provvisi che accendevano di esul­tanza e di stupore gli incontri di Gesù: i piccoli lo capiscono, capiscono il segre­to del vivere. Sono i piccoli di cui è pie­no il Vangelo: poveri, malati, vedove, bambini, i preferiti da Dio. Rappresen­tano l’uomo senza qualità che Dio ac­coglie nelle sue qualità.
Perché hai rivelato queste cose ai picco­li…
Le cose rivelate non si possono re­cintare in una dottrina, non costituisco­no un sistema di pensiero. Gesù è venu­to per mostrare, per raccontare la rivo­luzione della tenerezza di Dio (papa Francesco), nucleo originario e fre­schezza perenne del suo Vangelo.

Questa rivoluzione della tenerezza, Dio al fianco dei piccoli, è la vera lingua u­niversale, l’unica lingua comune ad ogni persona, in ogni epoca, su tutta la terra. Un piccolo capisce subito l’essenziale: se gli vuoi bene o no. In fondo è questo il segreto semplice della vita. Non ce n’è un altro, più profondo. I piccoli, i pecca­tori, gli ultimi della fila, le periferie del mondo hanno capito che in questa ri­voluzione della tenerezza sta il segreto di Dio.

Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Gesù viene e porta il ristoro della vita, mostra che è possibile vivere meglio, per tutti. Il Van­gelo è il sogno di rendere più umana e più bella la vita: l’umanizzazione è il grande segno della spiritualità autenti­ca. Nominare Cristo, parlare di Vangelo, celebrare Messa deve equivalere a confortare la vita affaticata, altrimenti sono parole e gesti che non vengono da lui. Le prediche, gli incontri, le istituzio­ni, devono diventare racconti d’amore, altrimenti sono la tomba della doman­da dell’uomo e della risposta di Dio.

Imparate da me… Andare da Gesù è an­dare a scuola di vita. Gesù: quest’uomo senza poteri ma regale, libero come il vento, che nessuno ha mai potuto com­prare o asservire, fonte di libere vite.
Da me che sono mite e umile di cuore…

Imparate dal mio modo di essere, senza imposizione e senza arroganza. Impa­rate dal mio modo di amare, delicato e indomito. Il maestro è il cuore. Dio stes­so non è un concetto: è il cuore dolce e forte della vita.

Il mio giogo è dolce e il mio peso è legge­ro, dolce musica, buona notizia. Il gio­go, nel linguaggio della Bibbia, indica la Legge. Ora la legge di Gesù è l’amore: prendete su di voi l’amore; prendetevi cura, con tenerezza e serietà, di voi stes­si, degli altri e del creato, diffondete la combattiva tenerezza di Dio, iniziando dai piccoli, che sono le colonne segrete della storia, le colonne nascoste del mondo. Prendersi cura di loro, come fa Dio, è prendersi cura del mondo intero.

(E. Ronchi)

Siamo sale, siamo luce

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In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.
Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».
(dal Vangelo di Matteo 5,13-16)

Siete sale della terra! Siete luce del mondo!
Queste espressioni che Gesù pronuncia ai suoi discepoli sulla montagna, hanno una forte carica positiva, e si traducono immediatamente per i discepoli in un impegno ad essere quello che sono (sale e luce), senza nasconderlo o perderlo.
Essere sale della terra, significa, nel linguaggio evangelico, essere segno di fedeltà a Dio, una fedeltà che non si deve perdere…
Essere luce, significa diventare punto di riferimento per tutti coloro che cercano Dio nel buio della loro vita e delle vicende tristi del mondo. Gerusalemme e il Tempio costruito in essa, nella tradizione biblica, avevano questa vocazione, cioè essere punto di attrazione e luce per tutti i popoli. Ora sono i discepoli, e non più una città o un luogo specifico, a diventare con le loro opere d’amore punti luminosi nella storia, in ogni luogo o tempo in cui si trovano, quindi anche oggi.
L’altra sera abbiamo letto e meditato questo brano del Vangelo con i componenti del nostro gruppo missionario parrocchiale, e ci siamo chiesti se questa pagina è ancora vera oggi. Ci siamo chiesti se anche oggi Gesù direbbe ai suoi discepoli del XXI secolo “voi siete sale della terra e luce del mondo”. Tutti hanno raccontato la propria esperienza di incontro con quei missionari, che in varie parti del mondo spendono la loro vita nella testimonianza della fede, e nel racconto, tutti concordavano del dire che i missionari conosciuti mostravano una serenità grande e una incredibile luce negli occhi…
Era presente all’incontro anche un padre comboniano, originario della nostra parrocchia, padre Raffaello Savoia, che da tantissimi anni si occupa della missione in America Latina, e in particolare della condizione degli afro-americani. All’inizio della condivisione è rimasto in silenzio e in ascolto, specialmente quando quelli del gruppo missionario raccontavano la loro idea di missionario, come persona sempre serena e forte e con una “luce particolare” negli occhi, proprio come dice il Vangelo. Quando gli ho chiesto se era d’accordo su tutto quello che era emerso, si è messo a raccontare della situazione della zona dove si trova ultimamente ad operare, cioè quella parte della Colombia che confina con il Venezuela.

Tutta la luce che sembrava brillare sulla missione e i missionari è sembrata improvvisamente spegnersi. Infatti il racconto delle terribili condizioni della popolazione e dei missionari di quel luogo, costretti a convivere e a sopravvivere alla violenza della guerriglia e dei signori del narcotraffico, ha messo in tutti una certa angoscia. La cattiveria umana quando si scatena è davvero una terribile cappa di buio che oscura i cuori, la speranza e il futuro dei singoli e di un intero popolo. Ad un certo punto del racconto di padre Raffaello ho pensato che forse noi uomini oggi nel mondo siamo più oscurità che luce e siamo più veleno che sale. Con quel racconto, il quadretto del missionario sempre felice e pieno di entusiasmo sembrava rompersi definitivamente. Ma è stato proprio padre Raffaello, che conosco da anni come persona carica di entusiasmo, fede e voglia di vivere, a sottolineare che proprio in quelle condizioni così terribili di quella zona di missione, i missionari, invitati più volte a lasciare tutto e mettersi in zone più sicure, sono invece rimasti e fermamente convinti a continuare la loro presenza. Essere sale della terra, cioè segno di fedeltà a Dio, ed essere luce del mondo, cioè punto di riferimento per chi cerca Dio, è a volte assai difficile e richiede un grosso atto di coraggio in Colui che rimane sale e luce per gli uomini, cioè Gesù. Lui è la luce del mondo ed è colui che sulla croce è rimasto fedele al patto d’amore tra Dio e l’uomo, anche quando il buio scendeva su tutta la terra…
Gesù quando dice “voi siete sale, voi siete luce” lo dice consapevole che il mondo è pieno di buio e violenza, ma proprio per questo crede negli uomini che si è scelto come discepoli, anche se loro stessi sono segnati dal limite umano.
Le tante zone oscure del mondo, dentro e fuori dell’uomo, hanno bisogno della nostra luce e del nostro sale, che sono la luce e il sale di Gesù in noi.
Se perdiamo la fiducia in Dio e pensiamo che il suo Vangelo non cambierà nulla, sarà davvero come gettare via il sale insipido e come nascondere una luce potente che invece andrebbe messa in alto.
Ascoltiamo dunque queste parole dette ai discepoli come rivolte a noi, a ciascuno di noi personalmente e come comunità. Sentiamole come un enorme atto di fiducia di Gesù che ancora oggi crede in noi e con noi illumina le tenebre del mondo.

Giovanni don