Può finire la religione ma non Dio

fine del mondo (colored)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«In quei giorni, dopo quella tribolazione,
il sole si oscurerà,
la luna non darà più la sua luce,
le stelle cadranno dal cielo
e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.
In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».
(dal Vangelo di Marco 13,24-32)

Dove Gesù pronuncia queste parole? Non è affatto secondario sapere il luogo di questo dialogo con i discepoli…
Siamo davanti al Tempio di Gerusalemme, il luogo che per gli ebrei è il più sacro e che domina la città. L’evangelista Marco indica esattamente da quale prospettiva Gesù sta guardando il Tempio con i suoi discepoli, è dal monte degli Ulivi. Da li si vede molto bene il maestoso terrapieno e la muraglia costruita da Erode il Grande che sorregge tutto lo spazio fatto di portici, portali, scalinate e cortili, e infine il tempio vero e proprio che sta nel mezzo della vastissima spianata. Quando sono stato con i giovani questa estate a Gerusalemme, la guida ci ha fatto fermare per osservare quel che rimane del tempio proprio dal monte degli Ulivi, al di la della valle del Cedron. Del favoloso e sacro Tempio ebraico non è rimasta che la spianata e parte dei contrafforti e mura che sorreggevano la parte superiore che è stata sostituita dalle grandi moschee islamiche. Guardando oggi viene proprio da dire che Gesù aveva ragione quando all’inizio di questo capitolo 13 del Vangelo di Marco, mentre tutti guardano al Tempio e sono affascinati dalla sua bellezza e grandezza, lui ne preannuncia la profanazione e completa distruzione.

visione di Gerusalemme dal monte degli Ulivi. in primo piano la spianata del Tempio con le due moschee al posto del Tempio distrutto


Nelle parole del Vangelo di oggi Gesù continua annunciando la fine di ogni idolatria e potenza umana. Il sole e la luna che si spengono, le stelle che cadono e le potenze del cielo sconvolte, sono un riferimento a tutte le forme religiose idolatriche del suo tempo. Per Gesù tutto è destinato a spegnersi e cadere, a cominciare proprio dal centro della religione a cui lui stesso appartiene insieme ai suoi discepoli. E la precarietà e limite coinvolgono tutte le altre forme religiose e potenze umane.
A duemila anni di distanza e conoscendo un po’ la storia, possiamo dire che Gesù aveva visto bene. Sono tanti gli sconvolgimenti religiosi e politici che hanno portato nel corso dei secoli al rovesciamento e alla fine di molte strutture e civiltà umane. E anche oggi abbiamo noi stessi la sensazione di una grande precarietà e limite della nostra stessa società e persino della nostra stessa religione.
La nostra tradizione cristiana la avvertiamo minacciata e in pericolo di estinzione: la pratica dei sacramenti diminuisce sempre più, calano le vocazioni sacerdotali e religiose, chiudono conventi e parrocchie, e i luoghi della fede che un tempo erano frequentati e pieni di vita religiosa sono ridotti a vuoti musei.
Abbiamo anche la sensazione che la nostra stessa vita di fede personale si riduca sempre più, e attorno a noi troviamo sempre meno aiuti e sostegni per evitare questo, perché anche gli altri sono in crisi come noi.
E’ la fine di tutto? Dobbiamo avere paura e perdere la speranza? Come fuggire da tutto questo degrado e fine?
Le parole che Gesù pronuncia ai suoi discepoli davanti al Tempio di Gerusalemme, non sono affatto parole di pessimismo e paura. Sono tutto l’opposto. Gesù invita alla speranza e conseguentemente a non fuggire. Gesù chiaramente annuncia che mentre tutte le cose umane sono precarie e finiscono, il “Figlio dell’uomo”, cioè Gesù, viene con potenza e gloria, e opera un grande raduno. Gesù non viene a distruggere e disperdere, ma a costruire e creare una nuova unità umana.
Non siamo abbandonati, e anche se le tradizioni e consuetudini religiose più radicate finiscono, non finisce la presenza di Dio nella storia umana. Tutto passa e finisce, potenze umane, religioni e tradizioni… ma non passano e finiscono le sue parole e la sua stessa presenza nel mondo.
In altre parole, non devo fermarmi a rimpiangere il passato e magari a una vita religiosa un tempo più forte e ricca di manifestazioni. Non devo aver paura se chiudono parrocchie e conventi e non si fanno più le processioni e le tante messe di una volta. Non devo temere se la società cambia e sembra avere sempre meno riferimenti espliciti alla fede cristiana… Tutto passa e cambia, ma non la presenza di Dio e l’azione di Gesù con la potenza dello Spirito!
Gesù mi invita alla speranza anche quando le stesse certezze di vita concreta sono precarie e in pericolo. Penso alle difficoltà economiche personali e collettive di questo periodo che evidenziano il crollo di un sistema di benessere che credevamo inarrestabile (proprio come gli ebrei credevano incrollabile il loro magnifico Tempio). Anche in questo caso, pur vivendo per molti nella sofferenza e preoccupazione immediata, Gesù invita a non avere paura e a credere nella sua presenza che rinnova il mondo.
Tra cristiani allora abbiamo il compito di aiutarci a non dimenticare le sue parole e a sostenerci nella precarietà di vita. E la nostra missione nel mondo non è quella di difenderci ma di annunciare con nostre parole e gesti la sua presenza e le sue parole.
Gesù ci invita ad aguzzare la vista spirituale e a guardare i piccoli segni che il mondo, pur nella sofferenza e limite, non è finito, ma è destinato ad una eterna primavera. I segni che Dio è presente a volte sono piccoli come le piccole gemme sui rametti degli alberi apparentemente morti con il gelo dell’inverno… Le gemme ci dicono che la primavera e l’estate sono vicini. E allora, anche se immersi nel freddo, vedendo questi piccoli segni, riprendiamo calore interiore e speranza.

Giovanni don

 

un cieco dalla fede cieca

guarito per strada (colored)

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
(dal Vangelo di Marco 10,46-52)

Sono stato a Gerico questa estate. Nel pellegrinaggio organizzato con i giovani della parrocchia, abbiamo previsto un cammino di 3 ore nel deserto, partendo da un punto in mezzo alle colline rocciose e aride della Giudea, fino alla città di Gerico, o almeno quella che oggi porta lo stesso nome, e che conserva ancora qualche resto della città dei tempi di Gesù.
Per vedere Gerico bisogna quindi farsi questo viaggio in Israele, ma per vedere Bartimeo, il cieco che sta lungo il cammino e che incontra Gesù, non si deve fare così tanta strada.
La prima cosa infatti che ho pensato leggendo questo racconto è che Marco spende più di una parola per dirci qualcosa di questo personaggio che non rimane anonimo. Capita spesso che alcuni personaggi del vangelo sono quasi privi di descrizione e privi anche del nome. Qui invece ci viene detto chi è e di chi è figlio. Al contrario la folla che sta attorno Gesù, rimane senza un nome.
Questo povero sappiamo quindi dove trovarlo e conosciamo anche il nome e anche di chi è figlio. Non possiamo quindi rimanere ciechi e non vederlo, facendo finta di nulla.
I poveri attorno a noi sono spesso invisibili, non perché non ci sono, ma perché noi non li vediamo. Sembra che abbiamo una specie di filtro agli occhi per non vedere le povertà e sofferenze che incontriamo. Questo Bartimeo è visto solamente come una gran seccatura. Le sue grida a Gesù (“Figlio di Davide, abbi pietà di me!”) sono smorzate dai rimproveri della folla che non lo vuole vedere, e vorrebbe passare più avanti, impedendo l’incontro con Gesù.
In questa folla di personaggi che non hanno nome, forse possiamo vedere proprio noi stessi, noi come singoli cristiani e anche l’intera comunità cristiana.
Ma il desiderio di Bartimeo di incontrare Gesù buca la barriera, e arriva all’orecchio attento di Gesù, che toglie così dall’ombra questo non vedente che nessuno vuole vedere.
Pensiamo che il miracolo della vista fisica ridonata sia l’unica guarigione di questo racconto. In realtà Gesù dona luce non solo agli occhi del cieco, ma dona nuova vista anche a questa folla, nella quale si mescolano anche i suoi discepoli. Gesù con quell’ordine (“Chiamatelo!”) guarisce la folla dalla cecità e la trasforma da” barriera” a “ponte”. E’ infatti attraverso le persone che stanno attorno a Gesù che il cieco può venire al Signore, e dal margine della strada a mendicare si ritrova ora al centro.

La folla cieca diventa vedente, e capace di accogliere un nuovo fratello al quale non rimprovera più le grida, ma al contrario fa coraggio! Questa è la comunità cristiana!
Se Bartimeo è l’immagine dell’uomo che cerca Dio in ogni situazione di vita, specialmente quando è più difficile e disumana, la folla è la Chiesa, siamo noi. Anche per noi è necessaria una guarigione dalla cecità che ci rende incapaci di vedere i poveri e le nostre stesse povertà. L’ordine di Gesù a chiamare il cieco è traducibile oggi nella nostra continua missione, che è quella di essere “ponte” verso Gesù, verso il Vangelo per tutti coloro che cercano una luce nelle tenebre della loro vita. Non possiamo mai, per nessun motivo, smorzare le domande degli uomini che cercano di risollevarsi dai bordi delle strade della vita. Al contrario dobbiamo fare coraggio e indicare la strada.
Gesù opera il miracolo dopo aver messo in luce il coraggio e la fede di questo cieco. Per andare da Gesù Bartimeo ha persino lasciato a terra il suo mantello, l’unica copertura e difesa per un povero mendicante. Ha quindi ragione Gesù a dire “…la tua fede ti ha salvato”. Questo Bartimeo è il vero credente che si fida ciecamente di Gesù ancor prima di ricevere quel che chiede. E con la vista riceve anche una nuova prospettiva per la vita, un nuovo modo di vedere se stesso e gli altri: diventa discepolo.

Giovanni don

verso il basso per andare in alto

discepoli politici (colored)

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
(dal Vangelo di Marco 10,35-45)

Qualche giorno fa ho incontrato un ragazzo che mi ha raccontato di una esperienza molto forte che lo ha segnato: il cammino di Santiago.
Lui si definisce credente ma non praticante, e dicendolo quasi si scusava con me, come se avesse vergogna di dirlo ad un prete. Mi ha colpito il racconto che lui ha fatto di questo pellegrinaggio a piedi durato circa un mese e mezzo e che lo ha portato da Verona a Santiago di Compostela, luogo che fin dal medioevo è meta di milioni di pellegrini, che intraprendono un viaggio che è fisico e spirituale insieme.
Questo giovane di 27 anni mi ha descritto la fatica del lungo viaggio fatto in solitaria, reso ancora più difficoltoso dalle condizioni meteorologiche non amiche e anche da problemi fisici che appesantivano ancora di più il cammino. Eppure, nonostante tutto questo, conserva il ricordo di una esperienza spirituale profondissima, avendo toccato fino in fondo la propria fragilità umana e insieme la pace interiore che, secondo lui, solo da Dio poteva venirgli.
Posso dire che questa sua esperienza ha toccato anche me, e mi ha fatto capire ancora di più la pagina del Vangelo di questa domenica.
Qui i discepoli Giovanni e Giacomo, manifestano tutta la loro incapacità di capire veramente cosa significa stare con Gesù. Per loro, stare dalla parte di Gesù Messia significa gloria e potere. Gesù invece li riporta alla realtà della sua esperienza. Stare con lui è scendere da ogni possibile piedistallo e sicurezza che noi o altri ci possono mettere, e iniziare un cammino di abbassamento che porta al servizio, al dare la vita e persino a perdere la vita (il calice da bere è la sofferenza e il battesimo di cui parla Gesù è il suo martirio sulla croce).
Stare con Gesù non è salire in alto, ma scendere in basso. Ma proprio in questo scendere fino dove siamo più fragili e fin dove l’umanità è fragile e debole, proprio li incontriamo Dio.
I discepoli forse pensano che la sofferenza e la fatica siano solamente un passaggio magari evitabile per incontrare Dio e realizzare se stessi. Gesù invece dice che proprio in quel cammino di abbassamento nel servizio e nel dono ci sono l’incontro con il Signore e la gloria della propria vita.

Penso che sia proprio in questo il segreto di un cammino di pellegrinaggio come quello verso Santiago compiuto dal mio giovane amico. Lui ha incontrato Dio ancor prima di arrivare nella bellissima e gloriosa Basilica di Santiago. Lo ha incontrato lungo la strada, nelle piccolezze e limiti del proprio corpo e nei numerosi incontri e dialoghi di coloro che si affiancavano a lui di tanto in tanto nello stesso cammino, carichi anch’essi di limiti e fatiche.
Il desiderio dei due fratelli figli di Zebedeo è anche il nostro, perché credo che tutti cerchiamo la salvezza della nostra vita e magari il posto giusto accanto a Dio. Gesù con le parole e con l’esempio lo insegna chiaramente ai suoi discepoli di allora, e questo suo insegnamento giunge anche a noi oggi: non ottenere la gloria umana, non la ricchezza e il potere… ma ricercare e mettersi al servizio gli uni degli altri, in una condivisione di fatiche, fragilità e piccolezze che ci accomunano tutti, anche se tentiamo spesso di mascherare e nascondere. È camminando verso il basso, nel servizio reciproco che possiamo salire molto in alto e trovare il posto giusto accanto a Gesù.

Giovanni don

una relazione mancata

porta fidei (colored)

 

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».
(dal Vangelo di Marco 10.17-30)

“il Vangelo non si riassume in una verità, bensì in una relazione”.
Questa frase sta all’inizio del primo capitolo di un bel libro di Ermes Ronchi, “il canto del pane” (edizioni San Paolo) che un paio di amici mi hanno caldamente consigliato. L’ho visto in libreria questa mattina, mi sono ricordato del consiglio, ho letto le prima pagina e… l’ho subito acquistato.
Ed è proprio questa frase, con la quale Ronchi sintetizza l’esperienza di Gesù, che mi ha dato la chiave di lettura del Vangelo di questa domenica.
Gesù non è venuto di dire delle verità, nel senso più distaccato e impersonale possibile. Ma è venuto prima di tutto a proporre una relazione con lui, e attraverso di lui con Dio Padre.
Potrei sintetizzare l’episodio raccontato dall’evangelista Marco con questo titolo:” una relazione mancata”.
Personalmente anch’io sono stato tentato di fermarmi ai beni materiali nella proposta forte che Gesù fa a questo ricco. Davvero Gesù è esigente, e la proposta di vendere tutto e di darlo ai poveri non posso nascondere che mi mette un po’ di disagio. Non sarò ricco di beni, come sembra essere il personaggio del vangelo, ma anche quel poco che ho me lo tengo stretto e mi dà sicurezza.
Ma se il ricco rimane bloccato sulla richiesta di dare via tutto, Gesù ha in mente qualcosa di più importante per lui: “vieni! Seguimi!”. La traduzione italiana del testo sottolinea l’entusiasmo di Gesù e la sua sincera attesa di amicizia nei confronti di questo uomo che l’ha avvicinato con tanto entusiasmo (…un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?»).
Ma questa corsa iniziale, segno anche della corsa spirituale interiore, alla fine trova nei beni materiali una zavorra paralizzante. Questo uomo si tiene i suoi beni, ma perde la relazione con Gesù. E nel volto scuro con il quale si allontana sembra trovare corrispondenza il volto scuro di Gesù, che nelle parole successive sembra davvero sconsolato («Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!»), e manifesta una profonda delusione per una relazione mancata, e mancata di poco…
Se da una parte del racconto abbiamo questo esempio di fallimento di Gesù (un possibile discepolo che non accetta di seguirlo), dall’altra parte abbiamo i discepoli che hanno invece accettato di seguire Gesù con la premessa di lasciare davvero tutto. Nel brano anche loro appaiono più volte sconcertati e non così saldamente sicuri delle scelte fatte. Penso che le parole riportate dall’evangelista raccontino una condizione interiore di continuo dubbio e fatica nel rimanere fedeli alla scelta fatta. Gesù è li anche per loro a ricordare che la scelta non è stata quella di farsi poveri e lasciare tutto e basta. La loro scelta è quella di entrare in relazione con lui e di creare relazioni nuove nella comunità e nel mondo. I discepoli di Cristo sono poveri di mezzi ma ricchi di relazioni, ed è questa ricchezza che li deve spingere e fare felici.

Il cristiano nel mondo ha questa missione, quella di testimoniare che è possibile relazionarsi con Dio ed è possibile creare legami nuovi con gli altri, dove la ricchezza materiale non è al primo posto, anzi può essere spesso di ostacolo. E credo che non serve sondare ancora di più le parole del vangelo per accorgersi di quanto sia vero. Basta vedere quel che succede oggi nel mondo. Chissà che la crisi economica che stiamo attraversando a livello mondiale e nazionale non sia la buona occasione per riscoprire le nostre vere ricchezze che sono gli altri accanto a noi e alla fine anche Dio.
Mi immagino il ricco del Vangelo che abbandona Gesù perché è incapace di lasciare le sue molte ricchezze, e alla fine le perde per la crisi economica, e questa lo riduce a non avere più nulla o quasi. E forse allora si ricorda della proposta di Gesù…. Che sia troppo tardi?
Il Vangelo non è quindi una serie di verità accademiche e distaccate, ma è una continua proposta di relazione, che chiede molto ed è a tratti davvero esigente, ma è una proposta che al conto finale ci fa diventare assai più ricchi e quindi realizzati.

Giovanni don

i tagli salutari del Vangelo

politici e tagli (colored)

In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».
(dal Vangelo di Marco 9,38-48)


Tra una decina di giorni la Chiesa celebrerà i 50 anni dall’apertura solenne del Concilio Vaticano Secondo, che per 3 anni, dal 1962 al 1965, radunò i vescovi di tutta la terra con lo scopo di ridisegnare la vita dentro la Chiesa e il suo rapporto con il mondo moderno. Fu un evento grandioso, non solo per la solennità con cui si svolse, portando nella Basilica di San Pietro migliaia di Vescovi, ma lo fu soprattutto per il coraggio con il quale si ripresero in mano molti aspetti della vita ecclesiale che sentivano ormai il peso del tempo e andavano rivisitati e cambiati. Pochi giorni fa ho avuto il dono di incontrare ad un convegno per gli insegnanti di religione di Verona, uno degli ultimi vescovi ancora in vita che parteciparono attivamente al Concilio: monsignor Luigi Bettazzi, ex vescovo di Ivrea. Questo pastore, nonostante l’età (89 anni), conserva intatta una carica di fede e un entusiasmo che fanno sentire questo evento conciliare ancora vivo.

Bettazzi ha esortato i presenti a credere ancora a questo cambiamento profondo che non è ancora del tutto avvenuto dentro la Chiesa
Uno dei punti più innovativi del Concilio è stata proprio l’apertura al mondo, con le sue differenti visioni religiose e filosofiche, spesso in contrasto con i dogmi della Chiesa. Il mondo, per i padri conciliari, non va più visto come “nemico”, ma al contrario va ricercato in esso quello che c’è di buono e che è segno della presenza di Cristo, anche senza avere l’etichetta esplicita cristiano cattolica.
“Chi non è contro di noi è per noi” dice Gesù ai suoi zelanti apostoli che vorrebbero che tutti facessero parte strettamente del loro gruppo (“…abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”). Gesù riconosce, con una semplice espressione che è sintesi del suo stile, che ogni uomo e donna di buona volontà che ricerca la pace, il bene comune, il progresso della convivenza umana non è mai contro il Vangelo e contro la Chiesa. Anzi in qualche modo ne fa parte!
Il Concilio ha riconosciuto questo e ha iniziato un processo di apertura e dialogo con il mondo che non si è interrotto.
Oggi forse questa apertura e dialogo sembrano un po’ lenti e insufficienti. E mi spiace che molti, che sono fuori dai nostri ambienti parrocchiali ed ecclesiali, sentano la Chiesa come nemica della modernità e sempre troppo critica riguardo le visioni diverse della vita umana.
Forse la critica di immobilismo fatta ai cristiani è un campanello d’allarme per andare a recuperare lo spirito del Concilio, e far si che questo anniversario non sia solo uno sguardo al passato, ma un rilancio verso il futuro.
Gesù lo dice in modo molto chiaro e “tagliente”: quello che scandalizza i piccoli va tagliato. Cosa scandalizza i piccoli, cioè coloro che sono poveri nella fede e ancora “piccoli” nella comprensione dell’insegnamento del Vangelo? Cosa del mio e nostro comportamento non aiuta chi è lontano ad avvicinarsi?
Se il nostro modo di fare è scandaloso (cioè letteralmente “fa inciampare) quelli che cercano Dio e Cristo… allora qualcosa va tagliato. Tagliare costa ed è doloroso, ma alla fine porta frutto.
Il Concilio ha tagliato molto nelle tradizioni e consuetudini secolari della Chiesa. Il taglio non è stato indolore e ancora oggi c’è chi si oppone a questo Concilio ritenendolo nefasto per la Chiesa. Ma penso che sta proprio in questi tagli il coraggio evangelico che è profondamente sanante per la Chiesa.
Cosa c’è da tagliare oggi in me, nel mio modo di vivere e testimoniare la fede? Quali sono i tagli che la Chiesa deve ancora operare per essere fedele al Vangelo?

Giovanni don

l’abbraccio provocatorio di Gesù

il più grande (colored)

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
(dal Vangelo di Marco 9,30-37)

Quello che più mi ha colpito del viaggio in Terra Santa, fatto con i giovani nel mese di agosto, non è stata la visita ai luoghi tradizionali e archeologici della vita di Gesù. Sicuramente il Santo Sepolcro, la basilica dell’annunciazione, la Basilica della natività a Betlemme ecc, hanno il loro fascino, e visitandoli è suggestivo leggere e meditare i brani del Vangelo che in quei luoghi sono ambientati.
Ma, come spesso accade anche nella vita, sono stati alcuni luoghi a margine che hanno attratto la mia emozione e la mia attenzione spirituale.
Uno di questi sta proprio alle spalle dell’antichissima basilica che ricorda la nascita di Gesù a Betlemme. Si tratta di una casa per bambini disabili che un gruppo di giovani suore sudamericane ha aperto da non molti anni. Il progetto è molto ambizioso e più grande dei mezzi economici che loro hanno a disposizione. Si tratta di dare una casa e una famiglia per sempre a bambini che sono stati definitivamente abbandonati dalle loro famiglie perché portatori di disabilità molto forti. Queste suore, insieme a dei volontari, hanno iniziato con poche stanze e pian piano hanno costruito una casa che è ancora stretta per i 21 bambini che ospita. Ma la fede e il coraggio di queste suore sono più grandi delle difficoltà economiche e ambientali, in quella terra segnata da tensioni religiose e politiche.
Il nostro gruppo di giovani pellegrini ha visitato questa casa e ha incontrato la piccola comunità. Per me è stato molto toccante vedere come la suora, che ci spiegava la vita della casa, abbracciasse le giovani fragili creature che abitano li. Ho ripensato a lei per immaginare l’abbraccio che Gesù dà al bambino del Vangelo. Gesù lo prende e lo mette in mezzo al gruppo degli apostoli che è perso nel discutere sulla grandezza umana dell’uno rispetto all’altro. Gesù compie questo gesto profetico ed educativo insieme, perché vuole educare i suoi umanissimi apostoli a pensare e agire in modo diverso e nuovo.
Gesù parla di croce, di vita donata, di coraggio e amore… e loro parlano di chi è il più grande e con quali gerarchie costruire il futuro gruppo dei discepoli. C’è davvero una gran distanza tra il maestro e i suoi discepoli. E questa distanza ancora oggi non è colmata nella Chiesa e dentro di noi, in qualsiasi contesto umano viviamo. Credo davvero che la Chiesa abbia il compito profetico di educare il mondo a rovesciare le gerarchie per mettere al centro chi è piccolo e fragile.
Gesù è abbastanza chiaro: chi vuole avere a che fare con lui e vuole essere suo discepolo, allora deve iniziare dal basso e nel basso rimanere. Ogni volta che un discepolo cerca di porsi in onori e potere più in alto di altri corre il rischio concreto che arrivando al potere, nel contempo perda l’obiettivo che è stare con Gesù e dalla parte di Dio.

Quella suora che abbraccia il bambino disabile in quella piccola casa di Betlemme mi ha dato l’immagine più vera e concreta di chi era Gesù e del suo stile di fare. Posso dire di aver visto davvero Gesù e di aver imparato la lezione su quello che posso essere io personalmente e noi come discepoli di oggi.

Giovanni don

Anche noi sordomuti da guarire

Martini in cielo (colored)

In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
(dal Vangelo di Marco 7,31-37)

Il rito dell’Effetà nella liturgia del Battesimo è messo come segno finale, dopo gli altri riti che seguono il gesto dell’acqua. Dopo l’unzione con l’olio del Crisma, la consegna della veste bianca e del cero acceso, il sacerdote tocca le orecchie e la bocca del battezzato con queste parole: “Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre…”
Come tanti altri segni nella liturgia, che se non andiamo al loro vero significato, rischiamo di viverli come segni magici, anche questo può apparire strano e “magico”… e alla fine irrilevante per la vita.
A me piace questo gesto che affonda nella storia evangelica e che lo stesso Gesù ha compiuto.
Gesù non faceva magie, ma lanciava segnali. La guarigione di questo sordomuto è il segno che è venuto tempo per aprirsi all’ascolto di Dio e che è possibile comunicare con lui!
“Apriti”, grida Gesù al sordomuto, che non solo è guarito dalla sordità e dall’incapacità fisica di emettere suoni, ma diventa un comunicatore di quello che gli è avvenuto, rompendo persino la barriera del silenzio imposta da Gesù…
Quando compio questo rito dell’Effetà sui bambini che ho appena battezzato, sento che il gesto è anche per me e per tutta la Chiesa.
Anch’io ho bisogno di guarire dalle mie sordità nei confronti di Dio e nei confronti dei miei fratelli, attraverso i quali molto spesso Dio stesso mi interpella. Sono sordo anche quando fisicamente le orecchie mi funzionano bene. E sono muto, anche quando non ho impedimenti fisici a parlare. Sono muto quando con le parole e con la vita non comunico la mia fede. Sono muto quando a chi cerca una parola di bene e una testimonianza di fede, io in realtà “non dico niente” con quel che faccio e quello che sono.
Non solamente il bambino battezzato deve iniziare ad ascoltare da solo la Parola di Dio e a professare la fede, ma anche noi tutti come cristiani siamo chiamati a ritornare all’ascolto del Vangelo (ascolto vero e non rapida e superficiale lettura…) e a far si che con tutto quel che siamo e viviamo, diamo lode e gloria a Dio. Il mondo nel quale siamo, e nel quale anche Dio ha camminato con i piedi di Gesù, ha bisogno di una presenza viva di persone che ascoltano e comunicano realmente la Parola di Dio.
In questi giorni la Chiesa ha reso l’ultimo omaggio a un cristiano che ha dedicato la vita alla Parola, testimoniando un ascolto vero e profondo e dimostrando una capacità straordinaria di comunicare la fede. E’ il Cardinal Carlo Maria Martini. Personalmente l’ho conosciuto prima nei suoi innumerevoli scritti che hanno guidato la mia formazione cristiana e umana nel solco del Vangelo, e poi l’ho conosciuto dal vivo qualche anno fa durante un corso di esercizi spirituali per sacerdoti vicino a Roma. Era il 2008 e già allora Martini era segnato dalla malattia che gli impediva di parlare a lungo e lo indeboliva nei movimenti. Ricordo che nonostante le premesse della sua salute facessero immaginare ad una predicazione stanca, ha saputo riaccendere in me un desiderio profondo di ascoltare la Parola di Dio e un grande entusiasmo nel cercare di attuarla nella mia vita. La malattia non è riuscita a spegnere la sua capacità di aprire all’ascolto del Vangelo e la capacità di stimolare la testimonianza.

Vorrei anch’io essere come lui, e penso che la Chiesa intera debba raccogliere la sua testimonianza. La Chiesa guarisca dalla sordità che spesso la rende incapace di ascoltare realmente Dio e l’umanità, e diventi capace di comunicare non con parole e gesti “muti”, ma con parole e gesti che parlano di Dio e lo fanno sentire presente e parlante nel mondo di oggi.

Giovanni don

 

Siamo di scandalo per Gesù?

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In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
(dal Vangelo di Marco 6,1-6)

Gesù scandalizza i suoi paesani. In termini letterali scandalizzare significa “essere d’inciampo”.
Ed è questo l’effetto che Gesù fa’ dal punto di vista interiore e spirituale in coloro che lo conoscono fin da piccolo, e conoscono bene la sua famiglia.
Se sappiamo qualcosa sulla famiglia di Gesù e sul lavoro del padre Giuseppe è proprio da questo passaggio di Vangelo, che ci presenta Gesù nella propria terra natia. È proprio qui che Gesù ha uno dei suoi più grandi fallimenti dal punto di vista della predicazione e nell’operare miracoli.
E’ davvero molto potente la forza negativa del pregiudizio! Blocca persino Gesù e rende Dio impotente!
Forse anche noi con Gesù siamo meravigliati di questo fatto. E’ davvero incredibile che il grande Gesù, potente in parole e opere, sia bloccato e messo in angolo proprio dai suoi conoscenti.
Ma questa meraviglia non ci deve scusare e non ci deve “tirare fuori”.
Se c’è un posto dove Gesù è di casa è proprio la sua bimillenaria Chiesa. C’è da chiedersi veramente se anche nella sua casa di oggi, che siamo noi, Gesù non sia bloccato nelle parole e nelle opere.
Siamo veramente sicuri che con le nostre regole, consuetudini, tradizioni e consolidatissime strutture ecclesiali, in fondo non facciamo un po’ da zavorra alla sempre dirompente e profetica azione di Dio nella storia?
Qualche giorno fa un vecchio amico mi ha ricontattato per gli auguri di compleanno. Sapevo che il suo primo matrimonio era finito da tempo e che aveva iniziato una nuova relazione.
Mi ha chiesto se volevo rivederlo per presentarmi la sua nuova compagna. Ha anche aggiunto che aveva piacere di trovarci nella loro casa e se… volevo anche dare la benedizione alla casa.
Io ho risposto subito di si, senza troppo pensarci. Mi pareva un bell’invito amichevole e anche una richiesta molto bella dal punto di vista spirituale.
Questo amico è rimasto molto sorpreso dalla mia risposta affermativa. “Ma la Chiesa non condanna le coppie come noi?” mi ha subito chiesto. Io gli ho risposto che la Chiesa ha tantissimi insegnamenti, e che certamente sulla loro situazione ha una posizione chiara. Ma gli ho anche ricordato che la Chiesa parla anche di amore, misericordia, accoglienza e che non si rifiuta mai una preghiera se questa è richiesta con sincerità.
Rimango sorpreso anch’io di come la Chiesa sia spesso vista solo come fonte di condanne, divieti e limitazioni. E mi domando quanto noi stessi, che siamo parte viva della Chiesa, facciamo in modo che si pensi in modo diverso. Riprendendo le parole del Vangelo, penso che spesso siamo proprio noi come Chiesa ad essere di “scandalo” a chi vuole incontrare Gesù e sentirlo vicino, perché con i nostri schemi rigidi e le nostre parole fredde siamo a nostra volta di scandalo, cioè “di inciampo”, a Gesù che vuole entrare e operare nel cuore di tutti gli uomini, specialmente quelli più lontani.
Facciamo dunque in modo che Gesù, che nella sua Chiesa ha la sua casa di sempre, non si senta limitato come a Nazareth nell’operare i prodigi dell’amore, ma possa, anche attraverso la nostra collaborazione , guarire e illuminare i cuori… di tutti.

Giovanni don

La cura all’emorragia della fede

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In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
(dal Vangelo di Marco 5,21-43)

L’evangelista Marco intreccia fortemente queste due storie, quella della bambina moribonda e quella della donna malata di emorragia , con l’effetto di amplificare ancor di più il senso di sofferenza e angoscia che Gesù è chiamato ad affrontare.
Le sofferenze sono molte e di diverso tipo in queste due storie parallele.
C’è il dolore fisico della malattia per la bambina e anche per la donna. E nella loro sofferenza hanno in comune il numero 12: la bambina si ammala e muore proprio a 12 anni e la donna vive come morta con una sofferenza infinita lunga quanto l’età della fanciulla.
E la donna avendo questo flusso di sangue irregolare, secondo le rigide prescrizioni religiose dell’epoca, è un’impura, una maledetta da Dio. L’emorragia che la fa soffrire nel corpo, la fa anche soffrire nella vita sociale e religiosa. E anche la malattia della bambina crea sofferenza nella sua famiglia e soprattutto nei suoi genitori, gettandoli in quell’angoscia mista a impotenza che conosco bene anche i genitori di oggi quando hanno un loro figlio o figlia gravemente ammalati.
E a fare da contorno a queste situazioni di sofferenza fisica e morale, ci sta anche la difficoltà delle persone, anche vicinissime a Gesù, a capire la situazione e l’intervento di Dio.
Gesù è rimproverato dai suoi stessi discepoli, nel momento nel quale chiede chi lo ha toccato. I suoi amici infatti sono stupiti da questa domanda visto che è pressato dalla folla. Non comprendono infatti che Gesù ha una sensibilità che va oltre la superfice e coglie anche la più piccola richiesta di aiuto, anche quella nascosta della donna che li tocca il mantello.
E Gesù quando invita alla speranza, finisce addirittura deriso dalla folla che poco prima piangeva per la bambina. Le sue parole (“la bambina non è morta, ma dorme”) sembrano una follia agli orecchi di questa gente abituata a pensare che le cose vanno sempre nella stessa maniera, e che in fondo non c’è vera speranza in Dio.
Quella che sembra essere la maggiore difficoltà nelle guarigioni non sta tanto nella difficoltà della guarigione fisica in se stessa, ma sopratutto nella mancanza di speranza e nell’essersi subito arresi davanti alle difficoltà.
Marco ci racconta anche della fede coraggiosa della donna ammalata di emorragia e della fiducia incrollabile che tiene i genitori della fanciulla legati a Gesù.
La donna malata sfida regole e convenzioni perchè crede che anche il solo sfiorare Gesù la può finalmente guarire, restituendole non solo la salute fisica, ma anche quella sociale e religiosa. E Gesù riconoscerà questo coraggio, dicendo addirittura che è questa fede che l’ha guarita e non solo al potenza che sente uscire da se.
E Giairo e sua moglie, anche difronte alla più inequivocabile prova del fallimento delle loro preghiere, la morte della figlia, non abbandonano Gesù e la speranza che hanno in lui.

In questi giorni il papa ha decretato che padre Pino Puglisi sia proclamato beato, perché martire della fede.
Questo prete ha dato la sua vita, sfidando in modo aperto e coraggioso il cancro della mafia annidato profondamente nelle persone nel quartiere Brancaccio di Palermo, dove era stato mandato parroco.
Padre Pino ha creduto che il Vangelo è salvezza anche la dove non sembra esserci speranza e anche dove tanti hanno fallito nel tentativo di curare questo cancro (come i medici che inutilmente hanno cercato di guarire la donna del Vangelo…). E anche se la feroce malattia della mafia è arrivata ad ucciderlo (il 15 settembre 1993), la sua cura evangelica, fatta di speranza nei giovani e di impegno concreto per la pace, continua a guarire e ad allargare il suo benefico effetto.
Come prete e come cristiano non posso che essere toccato anche io da questa testimonianza vera e così viva. Tante volte anche io perdo la speranza e rischio di abituarmi alla sofferenza e alla visione pessimistica della vita. E posso addirittura arrivare a credere che in fondo le preghiere non sono ascoltate, e che non c’è vera speranza in Gesù.
E’ da questa emorragia della fede che voglio essere guarito.
E so che toccando con il cuore e la mente anche per un solo per un istante il Vangelo… vengo guarito e le paure e chiusure si risolvono.

Giovanni don